Proposte di pace ad Alessandro

Darius,cum post cladem apud Issum Babyloniam profugisset, per epistulam Alexandrum precatur ut redimendarum captivarum potestatem sibi faciat et in eam rem magnam pecuniam pollicetur.Sed Alexander in pretium capitvarum regnum omne, non pecuniam, petit.Interiecto tempore, aliae epistulae Darii Alexandro redduntur, quibus filiae suae matrimonium et regni portio offertur.Sed Alexander sua (cose già sue)sibi dari rescripsit,iussitque regni arbitria (il destino del regno) victori permittere.Tum, spe pacis amissa,bellum darius reparat et cum quadrigentis milibus peditum et centum milibus equitum obviam vadit Alexandro. In itinere ei nuntiant uxorem eius, captivam Alexandri, decessisse, eiusque mortem illacrimatum Alexandrum exequiasque benigne prosecutum esse.Tunc Darius tertiam epistulam scripsit et gratias egit quod nihil hostile in suos fecerit.Offert deinde maiorem partem regni usque ad flumen Euphratem et alteram filiam uxorem et pro reliquis captivis triginta milia talentirum. Ad haec Alexander respondit supervacanea omnia esse: deditionem Darius pararet.

Dario, essendo fuggito dopo la sconfita presso Isso, invocato per lettera Alessandro affinchè renda a se il potere dei prigionieri (redimendarum) e prometta a quella grande denaro. Ma Alessandro chiese in cambio dei prigionieri tutto il regno non denaro. Passato il tempo, vengono consegate ad Alessandro altre lettere di Dario con cui era offerto le sue figlie in matrimonio e parte del regno. Ma ALessandro riscrisse che gli venivano dato cose già sue, e ordinò di (permittere) al vincitore il destino del regno. Allora persa la speranza di pace, Dario prepara la guerra e va incontro ad Alessandro con centomila cavalieri. Nel viaggio gi annunciano che sua moglie era caduta prigioniera di Alessandro e che (prosecutum esse) la sua morte (illacrimatum) Alessandro e benevolmente le esequie. Allora Dario scrisse la terza lettera e rese grazie perchè non aveva fatto niente di ostile. Offrì poi la maggior parte del regno fino al fiume eufrate e l'altra figlia e per i restanti prigionieri trecentomila talenti. A queste cose Alessandro rispose che tutte le cose erano inutili, Dario la resa.

Nova Officina Pagina 566 Numero 525

Flash sulla vita nell'antica Grecia

Athenae Musarum patria erant; Musae poetas adiuvabant et poetae saepe...
...epidabant atque Athenam ita orabant: “Aurigis, dea, victoriam, dona!”.

La patria delle Muse era Atene; le Muse aiutavano i poeti e i poeti spesso consacravano agli dei e alle dee le palme delle vittorie. Gli abitanti di Atene in molti modi costruivano le belle are e ornavano le statue delle dee con corone di rose. Sulla spiaggia aurighi delle bighe incitavano i cavalli; i cittadini di Atene e gli stranieri delle colonie affollavano le spiagge, osservavano le aurighi e gridavano: “Cavalli, aurighi, incitate!”. Le matrone, le donne e le figlie della famiglia trepidavano e Atena (la dea) così pregavano: “Dea, dona la vittoria agli aurighi”.

da Littera Litterae 1A pagina 42 Numero 1

LA STATUA DEL COLOSSEO

De tertio signo aeneo. Tertium signum est figura Colossei: alii statuam Solis existimant, alii Romae simulacrum dicunt. Colossei statua admodum mira et immensa erat. Stabat autem simulacrum in insula super Colosseum. In manu dextera sphaeram gerebat et in sinistra gladium: per sphaerammundum et per gladium gloriam bellicam significabat. Haec autem statua aenea tota auro deaurata per tenebras irradiabat. Cum Roma florebat, multi advenae Romam veniebant et statuam adorabant itaque Romam honorabant. Colossei autem statuam beatus Greogorius novo modo destruebat. Tantam massam multa industria et summo studio non evertebat, sed copiosum focum idolo supponebat et sic immensum simulacrum in antiquum chaos et impolitam materiam redigebat. Caput et manus dextera cum sphaera tanto restabant incendio et nunc ante palatium domini papae in marmoreis columnis mirum spectaculum cunctis exhibent.

A proposito del terzo segno di bronzo. Il terzo segno di bronzo è la statua del Colosseo. Alcuni la ritenengono la statua del Sole, altri il simulacro di Roma. In ogni modo era ammirevole ed immensa. Il simulacro si trovava nel quartiere sopra il colosseo. Nella mano destra portava una sfera, nella sinistra un gladio, la sfera stava a significare il mondo e il gladio la gloria bellica. Questa statua bronzea ricoperta d'oro riluceva nelle tenebre. Quando Roma fioriva molti forestieri vi giungevano e rendevano omaggio alla statua quanto onoravano Roma. In seguito il beato gregorio rendeva in una nuova forma la statua del colosseo. Non distruggeva con molto zelo e sommo intento tanta massa di metallo viceversa mise sotto all'idolo un grande fuoco tanto da ridurre l'immenso simulacro all'originale disordine e alla materia grezza. La testa e la mano destra con la sfera resitevano all'incendio ed attualmente fa mostra di se per intero davanti al palazzo del papa su colonne marmoree in un ammirevole spettacolo.

da nova lexis 1 A-D pag. 104 n° 6

LA GUERRA CONTRO MITRIDATE

Primus statim impetus belli Bithyniam rapuit, Asia inde pari terrore correpta est, nec cunctanter ad regem ab urbibus nostris populisque descitum est. Aderat, instabat, saevitiam quasi virtutem adhibebat: atrocissimo uno edicto omnes qui in Asia erant Romanae civitatis homines interfici iussit. Tum quidem domus, templa et arae, humana omnia atque divina iura violata sunt. Sed terror Asiae Europam quoque regi aperiebat. Itaque, mittens Archelaum Neoptolemumque praefectos, praeter Rhodum, quae pro nobis firmius stetit, ceteras Cyclades, Delos, Euboeam et Graeciae decorem Athenas tenebat. Italiam iamque urbem Romam regius terror adflabat. Itaque L. Sulla festinat, vir armis optimus, parique violentia ruentem ulterius hostem quasi manu reppulit. Primumque Athenas urbem, frugum parentem, obsidione ac fame ad humanos cibos compulit; mox subrutus est Piraei portus sex aut amplius muris cinctus.

Il primo assalto della guerra conquistò subito la Bitinia, poi con pari violenza fu travolta l’Asia e immediatamente dalle nostre città e dai popoli si passò dalla parte del re. Mitridate aveva assalito, minacciava, usava la ferocia come un valore: con un editto molto crudele stabilì che fossero uccisi tutti gli uomini che in Asia erano di cittadinanza romana. Inoltre senza dubbio furono violati abitazioni, templi e altari, tutte le leggi umane e divine. Ma il terrore dell’Asia apriva al re anche l’Europa. Quindi, mentre mandava Archelao e Neottolemo come prefetti, eccetto Rodi, che restò più saldamente dalla nostra parte, occupava le rimanenti Cicladi, Delo, Eubea e Atene bellezza della Grecia. La minaccia del re soffiava ormai sull’Italia e sulla città di Roma. Perciò L. Silla, il migliore uomo d’armi, agisce in fretta e con pari violenza respinse quasi a mano il nemico che crollò più avanti. Prima costrinse con l’assedio e la fame la città di Atene, patria di messi, a cibo umano; in seguito fu demolito il porto del Pireo che era stato cinto con sei o più mura.

Da nova lexis 1 A-D pag. 95 n ° 92

Le navi romane distrutte da una tempesta

Accidit ut illa nocte esset luna plena, qui dies maritimos aestus maximos in Oceano efficere consuevit, nostrisque militibus id erat incogniyum. Ita uno tempore et longas naves, quibus Caesar exercitum trasportandum curaverat quasque in aridum subduxerat, aestus complebat et onerarias, quae ad ancoras erat deligatae, tempestas adflictabat, neque ulla nostris facultas aut administrandi aut auxiliandi dabatur. Compluribus navibus fractis, reliquae cum essent ad navigandum, finibus ancoris reliquisque armamentis amissis, inutiles, magna - id quod erat necesse accidere - totius exercitus perturbatio facta est. Neque enim naves erant aliae, quibus reportari in Galliam possent et omnia deerant, quae ad reficiendas naves erant usui et, quod omnibus costabat hiemari in Gallia oportere, frumentum in Britannia in hiemen provisum non erat.

Avvenne che quella notte ci fosse la luna piena, che fu solita provocare grandissime maree nell'oceano, e ciò era sconosciuto ai nostri soldati. Così in un solo momento sia la marea riempì le navi lunghe, con le quali Cesare aveva fatto trasportare l'esercito e che aveva fatto tirare in secco, sia una tempesta distrusse le navi da carico che erano state legate alle ancore, nè era concesso ai nostri soldati alcuna possibilità di eseguire gli ordini o di aiutare. Distrutte moltissime navi, abbandonate perchè, prese le funi, le ancore e i restanti armamenti erano inutili alla navigazione, avvenne un grande scompiglio di tutto l'esercito - ciò che era inevitabile accadesse. Nè infatti c'erano altre navi, con le quali potessero essere riportati in Gallia e mancavano tutte le cose, che erano utili a riparare le navi, poichè era chiaro a tutti che conveniva passare l'inverno in Gallia, giacchè in Britannia non c'era frumento preparato per l'inverno.

Nova Lexis 2

Romolo prepara il ratto delle Sabine

Iam res Romana adeo erat valida ut cuilibet finitimarum civitatum bello par esset; sed penuria mulierum hominis aetatem duratura magnitudo erat, quippe quibus nec domi spes prolis nec cum finitimis conubia essent. Tum ex consilio patrum Romulus legatos circa vicinas gentes misit qui societatem conubiumque novo populo peterent: urbes quoque, ut cetera, ex infimo nasci; dein, quas sua virtus ac di iuvent, magnas opes sibi magnumque nomen facere; satis scire, origini Romanae et deos adfuisse et non defuturam virtutem; proinde ne gravarentur homines cum hominibus sanguinem ac genus miscere. Nusquam benigne legatio audita est: adeo simul spernebant, simul tantam in medio crescentem molem sibi ac posteris suis metuebant.

Roma era ormai così potente che poteva permettersi di competere militarmente con qualunque popolo dei dintorni. Ma per la penuria di donne questa grandezza era destinata a durare una sola generazione, perché essi non potevano sperare di avere figli in patria né di sposarsi con donne della zona. Allora, su consiglio dei senatori, Romolo inviò ambasciatori alle genti limitrofe per stipulare un trattato di alleanza col nuovo popolo e per favorire la celebrazione di matrimoni. Essi dissero che anche le città, come il resto delle cose, nascono dal nulla; in séguito, grazie al loro valore e all'assistenza degli dèi, acquistano grande potenza e grande fama. Era un fatto assodato che alla nascita di Roma erano stati propizi gli dèi e che il valore non le sarebbe venuto a mancare. Per questo, in un rapporto da uomo a uomo, non dovevano disdegnare di mescolare il sangue e la stirpe. All'ambasceria non dette ascolto nessuno: tanto da una parte provavano un aperto disprezzo, quanto dall'altra temevano per sé e per i propri successori la crescita in mezzo a loro di una simile potenza.

Nova Lexis 2 Pagina 347 Numero 5

La storia greca è molto più antica di quella romana

Videsne igitur vel in ea ipsa urbe, in qua et nata et alta sit eloquentia, quam ea sero prodierit in lucem? si quidem ante Solonis aetatem et Pisistrati de nullo ut diserto memoriae proditum est. at hi quidem, ut populi Romani aetas est, senes, ut Atheniensium saecla numerantur, adulescentes debent videri. nam etsi Servio Tullio regnante viguerunt, tamen multo diutius Athenae iam erant, quam est Roma ad hodiernum diem. nec tamen dubito quin habuerit vim magnam semper oratio.

Non vedi allora, anche in quella stessa città in cui l'eloquenza è nata ed è stata nutrita, quanto tardi essa sia uscita alla luce? Giacché, prima dell'età di Solone e di Pisistrato," di nessuno è stata tramandata alla memo ria la facondia. Ma costoro, riguardo all'età del popolo romano, devono apparire come dei vecchi; invece, se si contano le generazioni degli ateniesi, come dei giovani. Infatti, anche se fiorirono all'epoca del regno di Servio Tullio," tuttavia allora Atene esisteva già da molto più tempo" che Roma a tutt'oggi. E tuttavia non dubito che la parola abbia sempre avuto una grande potenza.

Nova Lexis 2 pagina 347 esercizio n.3

Astuzia di Mario in Numidia

Erat praeterea in exercitu nostro Numida quidam nomine Gauda, Mastanabalis filius, Masinissae nepos, quem Micipsa testamento secundum heredem scripserat, morbis confectus et ob eam causam mente paulum imminuta. Cui Metellus petenti, more regum ut sellam iuxta poneret, item postea custodiae causa turmam equitum Romanorum, utrumque negauerat: honorem, quod eorum modo foret, quos populus Romanus reges appellauisset; praesidium, quod contumeliosum in eos foret, si equites Romani satellites Numidae traderentur. Hunc Marius anxium aggreditur atque hortatur, ut contumeliarum in imperatorem cum suo auxilio poenas petat. Hominem ob morbos animo parum valido secunda oratione extollit: illum regem, ingentem virum, Masinissae nepotem esse; si Iugurtha captus aut occisus foret, imperium Numidiae sine mora habiturum; id adeo mature posse evenire, si ipse consul ad id bellum missus foret. Itaque et illum et equites Romanos, milites et negotiatores, alios ipse, plerosque pacis spes impellit, uti Romam ad suos necessarios aspere in Metellum de bello scribant, Marium imperatorem poscant.

C'era poi nel nostro esercito un Numida di nome Gauda, figlio di Mastanabale e nipote di Massinissa, che Micipsa nel suo testamento aveva nominato secondo erede; era logorato da una malattia e per questo leggermente menomato nell'intelligenza. Aveva chiesto a Metello di usufruire della prerogativa reale di sedergli accanto e inoltre di avere come guardia del corpo uno squadrone di cavalleria romana, ma il comandante gli aveva rifiutato entrambi i privilegi: l'onore, perché spettava soltanto ai re riconosciuti ufficialmente dal popolo romano; la guardia perché non sarebbe stato decoroso, per cavalieri romani, essere assegnati come scorta a un Numida. Mentre Gauda era ancora risentito, Mario lo avvicina e lo esorta a giovarsi del suo aiuto per vendicarsi del comandante e dei suoi affronti. Con un discorso pieno di lusinghe eccita la sua mente già indebolita dalla malattia, ricordandogli che è un re, un gran personaggio, il nipote di Massinissa: qualora Giugurta fosse stato catturato o ucciso, il trono di Numidia sarebbe stato senz'altro il suo, e questo poteva accadere al più presto, se egli, Mario, una volta console, fosse stato destinato a quella guerra. Pertanto Gauda e i cavalieri romani, nonché i soldati e i mercanti, vengono spinti, alcuni dalla sua influenza personale, i più dalla speranza di pace, a scrivere ai loro cari per criticare la condotta di guerra di Metello e per richiedere Mario come comandante supremo.

Nova Lexis 2 Pagina 325 Numero 3

La vita ci corrompe

"nemo non ita exit e vita tamquam modo intraverit'. Quemcumque vis occupa, adulescentem, senem, medium: invenies aeque timidum mortis, aeque inscium vitae. Nemo quicquam habet facti; in futurum enim nostra distulimus. Nihil me magis in ista voce delectat quam quod exprobratur senibus infantia. 'Nemo' inquit 'aliter quam quomodo natus est exit e vita." Falsum est: peiores morimur quam nascimur. Nostrum istud, non naturae vitium est. Illa nobiscum queri debet et dicere, "quid hoc est? Sine cupiditatibus vos genui, sine timoribus, sine superstitione, sine perfidia ceterisque pestibus: quales intrastis exite." Percepit sapientiam, si quis tam securus moritur quam nascitur; nunc vero trepidamus cum periculum accessit, non animus nobis, non color constat, lacrimae nihil profuturae cadunt. Quid est turpius quam in ipso limine securitatis esse sollicitum? Causa autem haec est, quod inanes omnium bonorum sumus, vitae laboramus. Non enim apud nos pars eius ulla subsedit: transmissa est et effluxit. Nemo quam bene vivat sed quam diu curat, cum omnibus possit contingere ut bene vivant, ut diu nulli. Vale.

"Tutti escono dalla vita come se vi fossero entrati da poco." Pensa a chi vuoi, giovani, vecchi, uomini maturi; li troverai ugualmente timorosi della morte, ugualmente ignari della vita. Nessuno ha concluso niente; rimandiamo sempre tutto al futuro. Quello che più mi piace di questa frase è che rimprovera ai vecchi di essere infantili. "Nessuno," dice, "muore diverso da come è nato." È falso: moriamo peggiori di quando siamo nati. E la colpa è nostra, non della natura. Essa ha il diritto di lamentarsi con noi: "E allora?" dice, "vi ho generato senza desiderî, senza paure, senza superstizioni, senza perfidie, senza altri mali: uscite dalla vita quali siete entrati." Chi muore sereno come è nato ha conquistato la saggezza; e invece, quando il pericolo ci è vicino, abbiamo paura, il coraggio se ne va, scoloriamo in volto, versiamo lacrime inutili. Che c'è di più vergognoso dell'essere turbati proprio alle soglie della serenità? Il motivo è che siamo privi di ogni bene e soffriamo di aver sprecato la vita.

Nova Lexis 2 Pagina 325 Numero 2

Fiera risposta a Cesare da parte degli ambasciatori Elvezi

Helvetiis Caesar ita respondit: eo sibi minus dubitationis dari, quod eas res, quas legati Helvetii commemorassent, memoria teneret, atque eo gravius ferre, quo minus merito populi Romani accidissent. Qui si alicuius iniuriae sibi conscius fuisset, non fuisse difficile cavere; sed eo deceptum quod neque commissum a se intellegeret quare timeret, neque sine causa timendum putaret. Quod si veteris contumeliae oblivisci vellet, num etiam recentium iniuriarum, quod eo invito iter per provinciam per vim temptassent, quod Haeduos, quod Ambarros, quod Allobroges vexassent, memoriam deponere posse? Quod sua victoria tam insolenter gloriarentur quodque tam diu se impune iniurias tulisse admirarentur, eodem pertinere. Consuesse enim deos immortales, quo gravius homines ex commutatione rerum doleant, quos pro scelere eorum ulcisci velint, his secundiores interdum res et diuturniorem impunitatem concedere. Cum ea ita sint, tamen si obsides ab iis sibi dentur, uti ea quae polliceantur facturos intellegat, et si Haeduis de iniuriis quas ipsis sociisque eorum intulerint, item si Allobrogibus satisfaciant, sese cum iis pacem esse facturum.Divico respondit: ita Helvetios a maioribus suis institutos esse uti obsides accipere, non dare consuerint; eius rei populum Romanum esse testem. Hoc responso dato discessit.

Cesare così rispose agli Elvezi: tanto meno doveva esitare, perché ciò che gli ambasciatori degli Elvezi avevano ricordato era impresso nella sua mente, e quanto minore era stata la colpa del popolo romano, tanto maggior dolore provava lui per la sconfitta: se i Romani avessero avuto coscienza di qualche torto commesso, facilmente si sarebbero tenuti in guardia; ma non pensavano di aver compiuto qualcosa per cui temere, né di dover temere senza motivo, e questo li aveva traditi. E se anche avesse voluto dimenticare le antiche offese, poteva forse rimuovere dalla mente le recenti? Gli Elvezi, contro il suo volere, non avevano cercato di aprirsi a forza un varco attraverso la provincia, non avevano infierito contro gli Edui, gli Ambarri, gli Allobrogi? Che si gloriassero in modo tanto insolente e si stupissero di aver evitato così a lungo la punizione delle offese inflitte, concorreva a uno stesso scopo: gli dèi immortali, di solito, quando vogliono castigare qualcuno per le sue colpe, gli concedono, ogni tanto, maggior fortuna e un certo periodo di impunità, perché abbia a dolersi ancor di più, quando la sorte cambia. La situazione stava così, ma lui era disposto a far pace: gli Elvezi, però, dovevano consegnargli ostaggi, a garanzia che le promesse le avrebbero mantenute, e risarcire gli Edui, i loro alleati e gli Allobrogi per i danni arrecati. Divicone replicò che gli Elvezi avevano imparato dai loro antenati a ricevere, non a consegnare ostaggi; di ciò il popolo romano era testimone. Detto questo, se ne andò.

Nova Lexis 2 Pagina 324 Numero 1

Metello difende la nobilitas contro mario homo novus

Igitur ubi Marius haruspicis dicta eodem intendere videt quo cupido animi hortabatur ab Metello petendi gratia missionem rogat. Cui quamquam virtus gloria atque alia optanda bonis superabant tamen inerat contemptor animus et superbia commune nobilitatis malum. Itaque primum commotus insolita re mirari eius consilium et quasi per amicitiam monere ne tam praua inciperet neu super fortunam animum gereret: non omnia omnibus cupienda esse debere illi res suas satis placere; postremo caueret id petere a populo Romano quod illi iure negaretur. Postquam haec atque alia talia dixit neque animus Mari flectitur respondit ubi primum potuisset per negotia publica facturum sese quae peteret. Ac postea saepius eadem postulanti fertur dixisse ne festinaret abire: satis mature illum cum filio suo consulatum petiturum. Is eo tempore contubernio patris ibidem militabat. Annos natus circiter viginti. Quae res Marium cum pro honore quem affectabat tum contra Metellum vehementer accenderat.

Mario, vedendo allora che le parole dell'aruspice tendevano a quello stesso obiettivo cui lo spingeva la sua ambizione, chiede a Metello il congedo per presentarsi candidato. Ma Metello, che pure era uomo straordinariamente ricco di coraggio, di amor di gloria e di altre doti care agli onesti, aveva però un carattere arrogante e peccava di superbia, male comune della nobiltà. Sorpreso, dapprima, dall'insolita richiesta, si meraviglia del suo proposito e quasi a titolo di amicizia lo invita a desistere da un progetto così malaccorto e a non coltivare ambizioni superiori alla sua condizione. Aggiungeva che non tutto è alla portata di tutti: Mario poteva essere pago del suo stato e doveva insomma guardarsi dal richiedere al popolo romano ciò che a buon diritto gli sarebbe stato negato. Poiché con queste e altre affermazioni simili non riuscì a piegare la volontà di Mario, gli rispose che avrebbe soddisfatto la sua richiesta non appena le esigenze di servizio glielo avessero permesso. Poi, di fronte alle insistenze di Mario, si dice che gli consigliò di non aver fretta di partire, perché sarebbe già stato abbastanza presto per lui chiedere il consolato insieme a suo figlio, il quale prestava allora servizio militare al seguito del padre e aveva circa vent'anni. Questa risposta aveva maggiormente rinfocolato in Mario sia il desiderio della carica cui aspirava sia il risentimento contro Metello.

Nova Lexis 2 Pagina 323 Numero 9

Marsiglia viene risparmiata

Massilienses urbis direptione perterriti inermes cum infulis se porta foras universi proripiunt ad legatos atque exercitum supplices manus tendunt. Qua nova re oblata omnis administratio belli consistit, militesque aversi a proelio ad studium audiendi et cognoscendi feruntur. Ubi hostes ad legatos exercitumque pervenerunt, universi se ad pedes proiciunt; orant, ut adventus Caesaris exspectetur: captam suam urbem videre: opera perfecta, turrim subrutam; itaque ab defensione desistere. Nullam exoriri moram posse, quo minus, cum venisset, si imperata non facerent ad nutum, e vestigio diriperentur. Docent, si omnino turris concidisset, non posse milites contineri, quin spe praedae in urbem irrumperent urbemque delerent. Haec atque eiusdem generis complura ut ab hominibus doctis magna cum misericordia fletuque pronuntiantur. Quibus rebus commoti legati milites ex opere deducunt, oppuguatione desistunt; operibus custodias relinquunt.

I Marsigliesi atterriti per l'eventuale saccheggio della città, inermi si precipitano tutti quanti fuori dalla porta con le sacre bende, tendendo supplichevolmente le mani ai luogotenenti e all'esercito. Presentatasi questa insolita situazione, ogni operazione di guerra viene sospesa e i soldati desistono dal combattimento, mossi dal desiderio di ascoltare e sapere. I nemici, giunti al cospetto dei luogotenenti e dell'esercito, si gettano tutti ai loro piedi; scongiurano di aspettare l'arrivo di Cesare. Essi, dicono, vedono la loro città presa; le opere d'assedio completate, la torre abbattuta e perciò rinunciano alla difesa. Dicono inoltre che, se essi, quando giungerà Cesare, non eseguiranno i suoi ordini, non ci sarà nessun motivo per indugiare nel distruggerla subito, a un suo cenno. Spiegano che, se la torre cadrà del tutto, non si potrà impedire ai soldati, desiderosi di preda, di irrompere nella città, distruggendola. Queste e molte altre simili considerazioni vengono esposte da uomini colti quali erano, con pianti e tono tale da suscitare grande pietà. Commossi da questi pianti e preghiere i luogotenenti ritirano i soldati dalle opere d'assedio, desistono dall'attacco; lasciano posti di guardia innanzi ai lavori.

Nova Lexis 2 Pagina 323 Numero 10

L'Eduo Diviziaco intercede per il fratello Dumnorìge

Diviciacus multis cum lacrimis Caesarem complexus obsecrare coepit ne quid gravius in fratrem statueret: scire se illa esse vera, nec quemquam ex eo plus quam se doloris capere, propterea quod, cum ipse gratia plurimum domi atque in reliqua Gallia, ille minimum propter adulescentiam posset, per se crevisset; quibus opibus ac nervis non solum ad minuendam gratiam, sed paene ad perniciem suam uteretur. Sese tamen et amore fraterno et existimatione vulgi commoveri. Quod si quid ei a Caesare gravius accidisset, cum ipse eum locum amicitiae apud eum teneret, neminem existimaturum non sua voluntate factum; qua ex re futurum uti totius Galliae animi a se averterentur. Haec cum pluribus verbis flens a Caesare peteret, Caesar eius dextram prendit; consolatus rogat finem orandi faciat; tanti eius apud se gratiam esse ostendit uti et rei publicae iniuriam et suum dolorem eius voluntati ac precibus condonet.

Diviziaco, in lacrime, abbracciò Cesare e cominciò a supplicarlo di non prendere provvedimenti troppo rigorosi contro suo fratello: sapeva che era tutto vero, ma nessuno poteva provarne maggior dolore di lui che, godendo di grande influenza nel suo paese e nel resto della Gallia quando suo fratello, ancora molto giovane, non ne possedeva alcuna, lo aveva aiutato ad affermarsi; ed ora egli si serviva delle ricchezze e del potere acquisito non solo per indebolire la sua influenza, ma quasi per preparare la sua rovina. Tuttavia, l'amore fraterno e l'opinione pubblica non potevano lasciarlo indifferente. Se, per mano di Cesare, fosse accaduto qualcosa di grave a Dumnorige, dal momento che lui, Diviziaco, gli era tanto amico, nessuno avrebbe creduto alla sua estraneità, e questo. gli avrebbe procurato l'ostilità di tutti i Galli. Mentre, supplicando, continuava a piangere e parlare, Cesare gli prende la mano, consolandolo, lo prega di non aggiungere altro, gli manifesta una così grande considerazione da perdonare per le sue preghiere e secondo il suo desiderio sia l'offesa recata alla Repubblica sia il suo personale risentimento. Convoca Dumnorige alla presenza del fratello, gli espone ciò che ha da rimproverargli, gli contesta ciò che ha scoperto di persona e le denunce dei suoi concittadini, lo ammonisce perché eviti in futuro di dare adito a sospetti; il passato glielo perdona, in grazia di suo fratello Diviziaco. Pone però Dumnorige sotto sorveglianza, per essere informato delle sue azioni e frequentazioni.

Nova Lexis 2 pagina 321 Numero 6

Un Eduo svela a Cesare un Complotto Antiromano

Tum demum Liscus oratione Caesaris adductus quod antea tacuerat proponit: esse non nullos, quorum auctoritas apud plebem plurimum valeat, qui privatim plus possint quam ipsi magistratus. Hos seditiosa atque improba oratione multitudinem deterrere, ne frumentum conferant quod debeant: praestare, si iam principatum Galliae obtinere non possint, Gallorum quam Romanorum imperia perferre, neque dubitare [debeant] quin, si Helvetios superaverint Romani, una cum reliqua Gallia Haeduis libertatem sint erepturi. Ab isdem nostra consilia quaeque in castris gerantur hostibus enuntiari; hos a se coerceri non posse. Quin etiam, quod necessariam rem coactus Caesari enuntiarit, intellegere sese quanto id cum periculo fecerit, et ob eam causam quam diu potuerit tacuisse.

Solo allora Lisco, spinto dal discorso di Cesare, espone ciò che in precedenza aveva passato sotto silenzio: c'erano degli individui che godevano di grande prestigio tra il popolo e che, pur non rivestendo cariche pubbliche, avevano da privati più potere dei magistrati stessi. Erano loro a indurre la massa, con discorsi sediziosi e proditori, a non consegnare il grano dovuto: sostenevano che, se gli Edui non erano più capaci di conservare la signoria sul paese, era meglio sopportare il dominio dei Galli piuttosto che dei Romani; i Romani, una volta sconfitti gli Elvezi, avrebbero senza dubbio tolto la libertà agli Edui insieme agli altri Galli. E le stesse persone rivelavano ai nemici i nostri piani e tutto ciò che accadeva nell'accampamento. Lisco non era in grado di tenerle a freno, anzi, adesso che era stato costretto a palesare a Cesare la situazione così critica, si rendeva conto di quale pericolo stesse correndo. Ecco il motivo per cui aveva taciuto il più a lungo possibile.

Nova Lexis 2 Pagina 321 Numero 5

Annibale diviene capro espiatorio dei Cartaginesi

Poenorum legati orationem eandem ferme quam apud Scipionem habuerunt, culpam omnem belli a publico consilio in Hannibalem vertentes: eum iniussu senatus non Alpes modo sed Hiberum quoque transgressum, nec Romanis solum sed ante etiam Saguntinis privato consilio bellum intulisse; senatui ac populo Carthaginiensi, si quis vere aestimet, foedus ad eam diem inviolatum esse cum Romanis; itaque nihil aliud sibi mandatum esse uti peterent quam ut in ea pace quae postremo cum C. Lutatio facta esset manere liceret. Cum more tradito a patribus potestatem interrogandi, si quis quid vellet, legatos praetor fecisset, senioresque qui foederibus interfuerant alia alii interrogarent, nec meminisse se per aetatem -- etenim omnes ferme iuvenes erant - dicerent legati, conclamatum ex omni parte curiae est Punica fraude electos qui veterem pacem repeterent cuius ipsi non meminissent.

Gli ambasciatori dei Cartaginesi tennero esattamente lo stesso discorso pronunciato a Scipione, allontanando tutta la colpa della guerra dalla decisione pubblica e scaricandola sul solo Annibale; essi affermarono che lui aveva attraversato le contro il parere del senato cartaginese non solo le Alpi, ma anche il fiume Ebro; che lui aveva portato la guerra per sua decisione non solo contro i Romani, ma anche contro gli abitanti di Sagunto; che da parte del senato e del popolo cartaginesi, se qualcuno dovesse osservare con verità, il patto con i Romani era rimasto inviolato fino a quel giorno; e così nient'altro era stato comandato a loro di richiedere, se non che fosse concesso permanere nelle stesse condizioni di pace che erano state fatte alla fine con Caio Lutazio. Quando poi, secondo consuetudine, il pretore diede ai senatori la facoltà di chiedere agli ambasciatori cartaginesi quello che volessero, e quando i più vecchi tra i senatori, che avevano partecipato ai precedenti trattati, chiedevano chi una cosa chi l'altra, e gli ambasciatori dicevano di non ricordarselo a causa dell'età - e infatti essi erano tutti troppo giovani - da ogni parte dell'aula si urlò che, con un inganno tipico dei cartaginesi, erano stati scelti per richiedere le antiche condizioni di pace, proprio coloro che non potevano ricordarsele

Nova Lexis 2 pagina 315 esercizio n.8

Come sopportare meglio il dolore

Ut enim fit in proelio, ut ignavus miles ac timidus, simul ac viderit hostem, abiecto scuto fugiat, quantum possit, ob eamque causam pereat non numquam etiam integro corpore, cum ei qui steterit, nihil tale evenerit, sic qui doloris speciem ferre non possunt, abiiciunt se atque ita adflicti et exanimati iacent; qui autem restiterunt, discedunt saepissime superiores. Sunt enim quaedam animi similitudines cum corpore. Ut onera contentis corporibus facilius feruntur, remissis opprimunt, simillime animus intentione sua depellit pressum omnem ponderum, remissione autem sic urgetur, ut se nequeat extollere. Et, si verum quaerimus, in omnibus officiis persequendis animi est adhibenda contentio; ea est sola offici tamquam custodia. Sed hoc idem in dolore maxime est providendum, ne quid abiecte, ne quid timide, ne quid ignave, ne quid serviliter muliebriterve faciamus, in primisque refutetur ac reiiciatur Philocteteus ille clamor. Ingemescere non numquam viro concessum est, idque raro, eiulatus ne mulieri quidem. Et hic nimirum est "lessus", quem duodecim tabulae in funeribus adhiberi vetuerunt. Nec vero umquam ne ingemescit quidem vir fortis ac sapiens, nisi forte ut se intendat ad firmitatem, ut in stadio cursores exclamant quam maxime possunt.

In battaglia il soldato vigliacco e pauroso, appena vede il nemico, butta via lo scudo e fugge più in fretta che può, e spesso per questo si fa ammazzare più facilmente anche se non è stato toccato: cosa questa che non succede a chi rimane fermo al proprio posto. Così, quelli che non sono capaci di resistere all'idea del dolore, si avviliscono, e rimangono in uno stato di abbattimento e di prostrazione: mentre quelli che resistono il più delle volte riescono vincitori. Perché, fra l'anima e il corpo esistono delle analogie. Un corpo, se si sforza, sopporta bene il peso, e se si rilascia ne rimane schiacciato: c'è molta somiglianza con l'anima che, se chiama a raccolta le sue forze, annulla il peso che le preme sopra, mentre se si lascia andare ne è oppressa e non se ne può liberare.
E senza dubbio, se vogliamo andare al fondo delle cose, sono quelle forze che noi dobbiamo chiamare a raccolta nello svolgimento di ogni nostra attività, perché esse sole fanno, voglio dire, la guardia per sorvegliare che noi adempiamo il nostro dovere. Nel dolore, comunque, bisogna stare attenti a non compiere nessun atto che sappia di avvilimento, di pavidità, di codardia, nessun atto degno d'uno schiavo o d'una donna, e prima di tutto bisogna condannare e respingere un atteggiamento come quello di Filottete. Qualche gemito, raramente, a un uomo si può anche concedere, in certe circostanze: ma le grida neppure alle donne bisogna permetterle. Indubbiamente a questo si riferiscono le Dodici Tavole, nel proibire il “lessus” ai funerali.

Nova Lexis 2 pagina 315 esercizio n.7

Il senso delle sventure per i buoni

'Quare multa bonis viris adversa eveniunt? 'Nihil accidere bono viro mali potest: non miscentur contraria. Quemadmodum tot amnes, tantum superne deiectorum imbrium, tanta medicatorum vis fontium non mutant saporem maris, ne remittunt quidem, ita adversarum impetus rerum viri fortis non vertit animum: manet in statu et quidquid evenit in suum colorem trahit; est enim omnibus externis potentior. Nec hoc dico, non sentit illa, sed vincit, et alioqui quietus placidusque contra incurrentia attollitur. Omnia adversa exercitationes putat. Quis autem, vir modo et erectus ad honesta, non est laboris adpetens iusti et ad officia cum periculo promptus? Cui non industrio otium poena est? Athletas videmus, quibus virium cura est, cum fortissimis quibusque confligere et exigere ab iis per quos certamini praeparantur ut totis contra ipsos viribus utantur; caedi se vexarique patiuntur et, si non inveniunt singulos pares, pluribus simul obiciuntur.

"Ma se vuole farli degni di sé, per quale ragione Dio manda ai buoni tante discrazie?" Innanzitutto ti ripeto che a un uomo buono non pu&ogravo; capitare nulla che possa dirsi propriamente un male: i contrari, infatti, non si mescolano fra loro. Come la quantità dei fiumi, delle piogge che cadono dal cielo e delle sorgenti curative non altera la salsedine del mare, né tanto meno l'elimina, così l'assalto delle avversità non intacca l'animo dell'uomo forte: questi rimane saldo nel suo stato e nelle sue convinzioni, piegando gli eventi a sé, non sé agli eventi, perché ha un potere superiore a tutto ciò che lo circonda. Non dico che sia insensibile alle avversità, dico che le vince, e anche se abitualmente è tranquillo e pacifico, quando quelle gli si buttano addosso sa ergervisi contro e rintuzzarle. Per lui le avversità non hanno altra funzione ed altro scopo che di esercitare la sua virtù. E quale uomo, degno di questo nome, che sia dedito all'onestà, non aspira ad essere all'onestà, non aspira ad essere messo giustamente alla prova, o non è pronto a fare il suo dovere anche sapendo di rischiare? Così l'ozio è una sofferenza per chi sia nato all'azione. Guarda gli atleti, che, attenti come sono alle proprie forze, si battono con avversari più gagliardi di loro, anzi, durante l'esercitazione, chiedono e pretendono dagli allenatori che li preparano alla gara di scaricargli contro tutte le loro energie, e incassano colpi su colpi, e se non trovano uno che sia almeno pari a loro, si battono contemporaneamente con più di un avversario.

Nova Lexis 2 Pagina 314 Numero 6

Accuse contro Cabria

Tum praefecti regis Persae legatos miserunt Athenas questum, quod Chabrias adversum regem bellum gereret cum Aegyptiis. Athenienses diem certam Chabriae praestituerunt, quam ante domum nisi redisset, capitis se illum damnaturos denuntiarunt. Hoc ille nuntio Athenas rediit neque ibi diutius est moratus, quam fuit necesse. Non enim libenter erat ante oculos suorum civium, quod et vivebat laute et indulgebat sibi liberalius, quam ut invidiam vulgi posset effugere. Est enim hoc commune vitium in magnis liberisque civitatibus, ut invidia gloriae comes sit et libenter de his detrahant, quos eminere videant altius; neque animo aequo pauperes alienam opulentium intuuntur fortunam. Itaque Chabrias, cum ei licebat, plurimum aberat. Neque vero solus ille aberat Athenis libenter, sed omnes fere principes fecerunt idem, quod tantum se ab invidia putabant futuros, quantum a conspectu suorum recesserint. Itaque Conon plurimum Cypri vixit, Iphicrates in Thraecia, Timotheus Lesbo, Chares Sigeo.

Allora i governatori del re persiano mandarono delegati ad Atene per chiedere, perché Cabria facesse una guerra con gli Egiziani. Gli Ateniesi stabilirono per Cabria una data fissata, prima della quale se non fosse tornato in patria, dichiararono che l’avrebbero condannato a morte. Egli a tale notizia ritornò ad Atene e lì non si fermò più a lungo di quanto fosse necessario. Infatti non si trovava volentieri davanti agli occhi dei suoi concittadini, perché viveva sontuosamente ed indulgeva per sé troppo prodigalmente, da poter sfuggire all’invidia del volgo. Infatti questo è un vizio comune nelle grandi e libere città, che l’invidia sia compagna della gloria e volentieri denigrano su quelli che vedono emergere troppo in alto; né i poveri guardano con animo sereno la fortuna altrui dei ricchi. E così Cabria, quando gli era possibile, stava lontano moltissimo. Ma non lui solo stava volentieri lontano da Atene, ma quasi tutti i capi fecero la stessa cosa, perché pensavano che sarebbero stati tanto lontani dall’invidia, quanto si fossero allontanati dal cospetto dei loro. E così Conone visse moltissimo a Cipro, Ificrate in Tracia, Timoteo a Lesbo, Carete a Sigeo.

Nova Lexis 2 pagina 314 esercizio 5

L'importanza della letteratura

Si quis minorem gloriae fructum putat ex Graecis versibus percipi quam ex Latinis vehementer errat: propterea quod Graeca leguntur in omnibus fere gentibus Latina suis finibus exiguis sane continentur. Qua re si res eae quas gessimus orbis terrae regionibus definiuntur cupere debemus quo manuum nostrarum tela pervenerint eodem gloriam famamque penetrare: quod cum ipsis populis de quorum rebus scribitur haec ampla sunt tum eis certe qui de vita gloriae causa dimicant hoc maximum et periculorum incitamentum est et laborum. Quam multos scriptores rerum suarum magnus ille Alexander secum habuisse dicitur! Atque is tamen cum in Sigeo ad Achillis tumulum astitisset: "O fortunate" inquit "adulescens qui tuae virtutis Homerum praeconem inveneris!" Et vere. Nam nisi Illias illa exstitisset idem tumulus qui corpus eius contexerat nomen etiam obruturum fuisse.

Se si pensa che i versi in greco diano una minore resa in gloria rispetto a quelli in latino, si sbaglia di grosso, giacché la poesia greca è letta in quasi tutto il mondo, quella latina è limitata al suo territorio davvero ristretto. Perciò, se le imprese da noi compiute hanno per confine il mondo intero, dobbiamo desiderare che ugualmente gloria e fama nostre si diffondano laddove in minor misura giunsero le armi dei nostri eserciti, poiché tutto ciò, come torna a lustro di quegli stessi popoli di cui si scrive la storia, così costituisce il supremo incitamento ad affrontare rischi e fatiche per quanti mettono a repentaglio la vita per il desiderio di gloria.Che gran numero di scrittori delle sue imprese si dice che Alessandro Magno tenesse con sé! E tuttavia egli, fermatosi davanti al sepolcro di Achille, al Sigeo, esclamò: 'O giovane fortunato, perché trovasti in Omero il cantore del tuo valore'. Ed è vero! Perché, se quel capolavoro dell'Iliade non fosse esistito, il medesimo sepolcro, che aveva custodito il corpo di Achille, ne avrebbe seppellito la fama.

Nova Lexis 2 pagina 309 esercizio n.3

Giugurta è convocato a Roma

Igitur Iugurtha contra decus regium cultu quam maxime miserabili cum Cassio Romam venit. Ac tametsi in ipso magna vis animi erat confirmatus ab omnibus quorum potentia aut scelere cuncta ea gesserat quae supra diximus C. Baebium tribunum plebis magna mercede parat cuius impudentia contra ius et iniurias omnis munitus foret. At C. Memmius aduocata contione quamquam regi infesta plebes erat et pars in vincula duci iubebat pars nisi socios sceleris sui aperiret more maiorum de hoste supplicium sumi dignitati quam irae magis consulens sedare motus et animos eorum mollire postremo confirmare fidem publicam per sese inviolatam fore. Post ubi silentium coepit producto Iugurtha verba facit Romae Numidiaeque facinora eius memorat scelera in patrem fratresque ostendit. Quibus iuuantibus quibusque ministris ea egerit quamquam intellegat populus Romanus tamen velle manufesta magis ex illo habere. Si verum aperiat in fide et clementia populi Romani magnam spem illi sitam; sin reticeat non sociis saluti fore sed se suasque spes corrupturum.

Giugurta, pertanto, contro la sua dignità di re, viene a Roma con Cassio in veste molto dimessa. Sebbene non gli mancasse la forza d'animo, indotto da tutti quelli per la cui nefasta influenza si era macchiato dei delitti sopra riferiti, con una grande somma di denaro compra l'aiuto del tribuno della plebe Gaio Bebio, al fine di farsi scudo della sua impudenza contro la legge e contro ogni violenza. Convocata l'assemblea, la plebe era ostile al re: chi lo voleva messo agli arresti, chi, secondo il costume degli antenati, lo voleva sottoporre al supplizio come nemico, se non avesse rivelato i nomi dei complici. Ma Gaio Memmio, badando più alla dignità che alla voce della collera, sedava i tumulti, placava gli animi e assicurava infine che per parte sua il salvacondotto concesso dallo Stato non sarebbe stato violato. Poi, ottenuto il silenzio, dopo aver fatto introdurre Giugurta, prende la parola rammentando i misfatti da lui commessi a Roma e in Numidia e descrivendo i suoi delitti contro il padre e contro i fratelli. Aggiunge che il popolo romano sa bene chi lo ha aiutato e chi è stato suo complice, ma vuole da lui prove più evidenti. Soltanto rivelando la verità potrà sperare nella lealtà e nella clemenza del popolo romano; tacendo, non salverà i complici e comprometterà se stesso e ogni sua speranza di salvezza.

Nova Lexis 2 pagina 309 es. n.2

DURA LA VITA A SPARTA

Lacedaemonii in peloponneso cum servis suis totam vitam agebant...



Gli Spartani conducevano una vita comoda (letteralmente: "totale, tutta intera, completa"). C'erano i servi iloti, che vivevano nei campi e coltivavano la terra. Gli Spartani, invece, vivevano all'interno della città fortificata e non si occupavano affatto di agricoltura, ma solo delle armi (meglio: della guerra)." Non ricordo cosa significa "contemno", comunque, a senso, dovrebbe essere una cosa del tipo: "Gli Spartani si dedicavano allo studio della dottrina e della vita" (qualcosa tipo biologia) "e non temevano gli addestramenti duri e i pericoli delle guerre. I "liberi" (figli?) degli Spartani ricevevano un'educazione severa fin dalla più tenera età: non erano (sicura che non sia "erant"?) mai oziosi, dedicavano poco tempo alle attività letterarie, "incumbebant" (non ricordo il significato di "incumbo", ma dovrebbe essere qualcosa tipo "si dedicavano") con grande attenzione agli esercizi ginnici con i compagni e allo studio dell'arte militare. Dunque, non solo gli Spartani adulti, ma anche i bambini erano abituati a "oppetere" (sopportare?) avversità e scomodità. Grazie all'abilità nell'arte della guerra, terrorizzavano i nemici e sconfiggevano spesso gli avversari".

da nova lexis 1 A-D pag. 93 n° 8

Cicerone in esilio scrive ai familiari

Tullius Terentiae suae, Tulliolae suae, Ciceroni suo salutem dicit. Et litteris multorum et sermone omnium perfertur ad me incredibilem tuam virtutem et fortitudinem esse teque nec animi neque corporis laboribus defatigari. Me miserum! te ista virtute, fide, probitate, humanitate in tantas aerumnas propter me incidisse, Tulliolamque nostram, ex quo patre tantas voluptates capiebat, ex eo tantos percipere luctus! Nam quid ego de Cicerone dicam? qui cum primum sapere coepit, acerbissimos dolores miseriasque percepit. Quae si, tu ut scribis, fato facta putarem, ferrem paullo facilius, sed omnia sunt mea culpa commissa, qui ab iis me amari putabam, qui invidebant, eos non sequebar, qui petebant. Quod si nostris consiliis usi essemus neque apud nos tantum valuisset sermo aut stultorum amicorum aut improborum, beatissimi viveremus: nunc, quoniam sperare nos amici iubent, dabo operam, ne mea valetudo tuo labori desit. Res quanta sit, intelligo, quantoque fuerit facilius manere domi quam redire; sed tamen, si omnes tribunos pl. habemus, si Lentulum tam studiosum, quam videtur, si vero etiam Pompeium et Caesarem, non est desperandum. Valete. Data ante diem VI. Kal. Decembr. Dyrrhachii.

Tullio A Terenzia, Tulliola, Cicerone saluta
Dalle lettere di molti e dalla viva voce di tutti mi giunge notizia che sei di una forza d'animo e d'una energia incre dibili e che non ti lasci stancare ne dalle fatiche fisiche ne da quelle morali. O mia disgrazia! Con queste tue virtù, con la tua fedeltà, la tua rettitudine, la tua umanità vederti piombata in cosi grandi angosce per colpa mia; e vedere la nostra Tulliola ricavare motivo di pianto da un padre, da cui era abituata a ricevere tante soddisfazioni! E che dovrei dire del nostro figliolo? Appena raggiunta l'età della ragione ha subito le più crudeli sofferenze e miserie. Se io le credessi, come scrivi tu, causate dal destino avverso, le sopporterei un po' meglio; ma la responsabilità di tutto è integralmente mia, che pensavo di essere amato da chi mi odiava e che non prestavo attenzione a chi invece si volgeva a me. Se avessi fatto buon uso della ragione e non avessi dato tanto retta alle chiacchiere di amici o stupidi o disonesti vivrei adesso sereno. Ma ore che degli amici ci ingiungono di sperare per il meglio, mi darò da fare perché la mia salute possa rispondere alle pene che ti dai per me. Mi rendo conto delle dimensioni della cosa e quanto fosse più facile restare in patria piuttosto che tornarvi! Se pero abbiamo dalla nostra tutti i tribuni della plebe; se l'interessamento di Lentulo - nella sue posizione di console designato - non è solo apparente; se vi si aggiungono anche Pompeo e Cesare, non bisogna disperare. Addio. Durazzo, 26 novembre.

Nova Lexis 2 pagina 307 esercizio n.11

MEDEA

Medea, Aeetae et Idyiae filia, ex Iasone miseros filios Mermerum et...



Medea, figlia di Eeta e di Idia, aveva già generato assieme a Giasone due figli, Mermero e Ferete, le veniva rimproverato che un uomo tanto forte, bello e nobile aveva una moglie straniera e avvelenatrice. A questo Creonte, re di Corinto, diede in sposa sua figlia minore Glauce. Medea, quando vide di essere stata così offesa da Giasone, realizzo dai suoi veleni una corona d'oro e ordinò ai suoi figli di offrirla in dono alla matrigna. Ricevuto il dono, Creusa (Glauce) bruciò insieme a Giasone e Creonte. Medea quando vide bruciare la reggia, uccise i suoi figli avuti da Giasone, Mermero e Ferete, e fuggì da Corinto.



da nova lexis 1 A-D pag. 95 n°2

PRODIGI TRASCURATI

Caius Antonius in Pistorii agro Catilinam devincebat et laureos frondosos ramos in totam provinciam portabat. Ibi a Dardanis opprimebatur, copias ammitebat et ex provincia solus profugiebat. Nam, Caius in Capitolio dedebat deponere , sed contra ad suos adversarios porrigebat. Marcus Crassus ad Parthos veniebat et magnos Mesopotamiae fluvios vado traciebat, sed multa prodigia neglegebat. Nam, subita procella in fluvio signifero signum obripiebat et in altas undas mergebat, oculi densis nimbis offendubantur et teatrae tenebrae fluvium traicere prohibebant; magna cum pertinacia Crassus perseverabat et cum filio et suis copiis e vita excedebat.


Gaio Antonio sottometteva Catilina nel campo di Pistoia e portava in tutta la provincia i rami d'alloro frondosi. Là era premuto dai Dardani contro, perdeva le truppe e da solo fuggiva dalla provincia. Infatti Gaio Antonio prediceva ai suoi avversari la vittoria e alla sua patria nessuna opportunità procurava: l'alloro sul campidoglio doveva deporre ma al contrario ai suoi avversari rivolgeva. Crasso veniva contro i Parti e a guado i grandi fiumi della mesopotamia attraversava, ma molti prodigi trascurava. Infatti un improvvisa tempesta nel fiume portava via il segnale con l'alfiere e nelle alte onde sommergeva, per le fitte nubi gli occhi venivano offuscati e le oscure tenebre proibivano di attraversare il fiume, con grande tenacia Crasso perseverava e con il figlio e le sue truppe usciva dalla vita.

da nova lexis 1 A-D pag. 94 n° 9

Agesilao vanifica un tentativo di diserzione

Agesilaus, cum Epaminondas Spartam oppugnaret essetque sine muris oppidum, talem se imperatorem praebuit ut eo tempore omnibus apparuerit nisi ille fuisset Spartam futuram non fuisse. In quo quidem discrimine celeritas eius consilii saluti fuit universis. Nam cum quidam adulescentuli hostium adventu perterriti ad Thebanos transfugere vellent et locum extra urbem editum cepissent Agesilaus qui perniciosissimum fore videret si animadversam esset quemquam ad hostis transfugere conari cum suis eo venit atque ut si bono animo fecissent laudavit consilium eorum quod eum locum occupassent; id se quoque fieri debere animadvertisse. Sic adulescentis simulata laudatione recuperavit et adiunctis de suis comitibus locum tutum reliquit. Namque illi aucti numero eorum qui expertes erant consilii commovere se non sunt ausi eoque libentius quod latere arbitrabantur quae cogitaverant.

Agesilao, quando Epaminonda dette l'assalto a Sparta e la città era senza mura, si dimostrò comandante tale che in quella circostanza fu chiaro a tutti che, se non ci fosse stato lui, Sparta non ci sarebbe stata più. Ed in tale frangente la rapidità della sua decisione fu di salvezza per tutti. Infatti alcuni ragazzotti, spaventati dell'arrivo dei nemici, volendo passare ai Tebani, avevano occupato un'altura fuori della città: Agesilao intuendo che sarebbe stato esiziale se si fosse notato il tentativo di diserzione al nemico, andò là con i suoi e come se quelli avessero agito con retta intenzione, lodò la loro decisione di occupare quella posizione; anche lui del resto aveva capito che bisognava fare questo. Così fingendo di lodarli, recuperò quei ragazzi e aggregati loro alcuni suoi compagni, lasciò la postazione ben difesa. Infatti quelli, cui si erano aggiunti uomini ignari della loro decisione, non osarono muoversi, e tanto più volentieri, perché credevano che fossero rimasti nascosti i loro divisamenti.

Nova Lexis 2 pagina 306-307 esercizio n.10

L'avvelenamento di Sofonisba

Masinissae haec audienti non rubor solum suffusus sed lacrimae etiam obortae; et cum se quidem in potestate futurum imperatoris dixisset, orassetque eum ut, quantum res sineret, fidei suae temere obstrictae consuleret - promisisse enim se in nullius potestatem eam traditurum - ex praetorio in tabernaculum suum confusus concessit. ibi arbitris remotis cum crebro suspiritu et gemitu, quod facile ab circumstantibus tabernaculum exaudiri posset, aliquantum temporis consumpsisset, ingenti ad postremum edito gemitu, fidum e servis vocat, sub cuius custodia regio more ad incerta fortunae venenum erat, et mixtum in poculo ferre ad Sophonibam iubet, ac simul nuntiare Masinissam libenter primam ei fidem praestaturum fuisse, quam vir uxori debuerit: quoniam eius arbitrium qui possint adimant, secundam fidem praestare, ne viua in potestatem Romanorum veniat. Hunc nuntiatum ac simul venenum ferens minister cum ad Sophonibam venisset, "Accipio" inquit "nuptiale munus, neque ingratum, si nihil maius vir uxori praestare potuit. Hoc tamen nuntia, melius me morituram fuisse si non in funere meo nupsissem". Non locuta est ferocius quam acceptum poculum nullo trepidationis signo dato impavide hausit.

Masinissa ascoltando non solo ebbe ad arrossire violentemente ma anche gli spuntarono le lacrime. Garantì che egli si sarebbe sempre attenuto al volere del comandante e lo pregò che, per quanto consentiva la situazione, lo lasciasse provvedere alla parola data in maniera troppo avventata - si era infatti impegnato a non consegnare Sofonisba in potere di alcuno - , uscendo poi dal pretorio e f!cendo ritorno, costernato, alla sua tenda. Lì, allontanati i testimoni, passò qualche tempo a sospirare e a gemere, tanto che tutti quelli che stavano vicino alla sua tenda potevano facilmente udirlo. Dopo un ultimo, forte lamento chiamò un servo fidato (quello che aveva in custodia, secondo una prassi regia, il veleno da assumersi nei rivolgimenti della sorte); versò il veleno in una coppa, ordinando di recarla a Sofonisba; il servo doveva anche dire che Masinissa avrebbe davvero voluto assolvere con lei al primo degli impegni che un uomo ha con la sua donna; e tuttavia era quella una decisione che gli veniva sottratta da chi aveva più potere di lui e quindi doveva assolvere almeno al secondo impegno, quello di non fari a cadere viva in potere dei Romani.

Nova Lexis 2 pagina 306 esercizio n.9

Ariovisto non cede: è guerra con i romani di Cesare

Ad haec Ariovistus respondit: ius esse belli, ut qui vicissent, iis quos vicissent, quemadmodum vellent, imperarent; item populum Romanum victis non ad alterius praescriptum, sed ad suum arbitrium imperare consuesse.Si ipse populo Romano non praescriberet quemadmodum suo iure uteretur, non oportere se a populo Romano in suo iure impediri. Haeduos sibi, quoniam belli fortunam temptassent et armis congressi ac superati essent, stipendiarios esse factos. Magnam Caesarem iniuriam facere, qui suo adventu vectigalia sibi deteriora faceret. Haeduis se obsides redditurum non esse neque his neque eorum sociis iniuria bellum inlaturum, si in eo manerent quod convenisset, stipendiumque quotannis penderent. Si id non fecissent, longe his fraternum nomen populi Romani afuturum. Quod sibi Caesar denuntiaret se Haeduorum iniurias non neglecturum, neminem secum sine sua pernicie contendisse. Cum vellet, congrederetur: intellecturum quid invicti Germani, exercitatissimi in armis, qui inter annos xiiii tectum non subissent, virtute possent.

A queste cose Ariovisto rispose: era diritto di guerra, che quelli che avevano vinto comandassero su quelli che avevano vinto, come volessero; ugualmente il popolo romano era solito comandare ai vinti non secondo la decisione di un altro, ma secondo il proprio arbitrio. Se egli non prescriveva al popolo romano come servirsi del proprio diritto, non bisognava che lui fosse ostacolato nel suo diritto dal popolo romano. Gli Edui, poiché avevano tentato la sorte della guerra ed erano venuti alle armi e sconfitti, erano diventati suoi tributari. Cesare gli faceva un grave oltraggio, che col suo arrivo gli rendeva peggiori le sue entrate. Egli non avrebbe restituito agli Edui gli ostaggi e non avrebbe dichiarato guerra né a loro né ai loro alleati contro giustizia, se fossero rimasti a quello che avevano convenuto, ed ogni anno pagassero il tributo. Se non l’avessero fatto, per loro il nome fraterno del popolo romano sarebbe stato molto lontano. Poichè Cesare gli dichiarava che non avrebbe trascurato gli oltraggi degli Edui, nessuno si era misurato con lui senza danno. Volendo, si scontrasse: avrebbe capito cosa potevano in valore i Germani invincibili, molto esercitati nelle armi, che per 14 anni non erano entrati a casa.

Nova Lexis 2 pagina 306 esercizio n.8

I PRODIGI PRESSO GLI ANTICHI ROMANI

Ab antiquis romanis multa funesta prodigia videbantur saepe mira portenta italia incolas terrebant eu multi prodigia de victoriis adversaque fortuna nuntiebant. Aliquando arma telaque e terra videbantur ad caelum ascendere. Pansa reliquebat suarum copiarum signa ad Romae praesidium sed signa multis spissique araneis vestibantur. In castris caesaris in edito fastigio praetorii super linteum considebat aquila inde cum multis bestiis excitabatur et avolabat. Sub Appennino in villa Liviae dominae Caesaris familiae, magno sono terra intremuit. Caesaris pulchrorum hortorum aedificia ad portam Collinam de caelo tangebantur; postea, insidiis Germanorum Romani cum sociis circumveniebantur et graviter profligabantur. In Germania in castris Drusi examen apium in tabernacu.lo Hostilii Rufi, praeficti castrorum, consedit; postea, Romanorum copiae per insidias subigebantur .


Gli antichi Romani vedevano molti funesti prodigi, spesso atterrivano gli abitanti dell'Italia straordinari portenti e molti prodigi che annunciavano una vittoria oppure l'avversa fortuna. A volte le armi e i dardi sembravano salire dalla terra al cielo. Pansa lasciava le insegne delle sue truppe a presidio di roma ma le insegne erano rivestite da molte spesse sabbie. Nell'accampamento di Cesare sul fastigio pretorio sopra il linteo sedeva un'aquila poi quando era eccitato da molte bestie volava. Nella casa di campagna di Livia, padrona della famiglia di Cesare ai piedi dell'Appennino, la terra tremò con grande fragore. Edifici dei bei giardini di Cesare venivano colpiti dal fulmine . In Germania nell'accampamento di Druso uno sciame di api stava nella tenda di Rufo, prefetto degli accampamenti; dopo, le truppe dei romani erano sottomesse con insidie.

da nova lexis 1 A-D pag. 89 n° 13

Non si chiede un perdono anticipato

Iuste venusteque admodum reprehendisse dicitur Aulum Albinum M. Cato. Albinus, qui cum L. Lucullo consul fuit, res Romanas oratione Graeca scriptitavit.In eius historiae principio scriptum est ad hanc sententiam: neminem suscensere sibi convenire, si quid in his libris parum composite aut minus eleganter scriptum foret; "nam sum" inquit "homo Romanus natus in Latio, Graeca oratio a nobis alienissima est", ideoque veniam gratiamque malae existimationis, si quid esset erratum, postulavit. Ea cum legisset M. Cato: "Ne tu," inquit "Aule, nimium nugator es, cum maluisti culpam deprecari, quam culpa vacare. Nam petere veniam solemus, aut cum inprudentes erravimus aut cum compulsi peccavimus. Tibi," inquit "oro te, quis perpulit, ut id committeres, quod, Priusquam faceres, peteres, ut ignosceretur?". Scriptum hoc est in libro Corneli Nepotis de inlustribus viris XIII.

Si dice che Marco Catone giustamente ed elegantemente riprese A.Albino. Aulo Albino, che fu console insieme a Lucio Lucullo, scrisse le vicende storiche di Roma nella lingua Greca. All'inizio di questa storia è stato scritto che non era bene che qualcuno si adirasse con lui se allora qualcosa fosse stato scritto poco ordinatamente o meno elegantemente. "Infatti sono" disse "un uomo romano, la lingua greca da noi è lontanissima", perciò è evidente che Albino avesse chiesto perdono se qualcosa fosse sbagliata. Marco Catone dopo che lesse ciò disse: "Veramente tu Aulo sei troppo sciocco, poichè hai preferito allontanare la colpa anzicchè attenderla. Infatti siamo soliti chiedere scusa o quando abbiamo sbagliato imprudenti o quando abbiamo sbagliato costretti. ti chiedo - disse- chi ti ha instigato a chiedere che ti fosse perdonato ciò che hai fatto prima d'averlo fatto?". Ciò fu scritto nel XIII libro di Conrnelio Nepote sugli uomini illustri.

Nova Lexis 2 pagina 305 esercizio n.7

Il coraggio di fronte al dolore

Quaeris quid sit malum?cedere iis quae mala vocantur et illis libertatem suam dedere, pro qua cuncta patienda sunt: perit libertas nisi illa contemnimus quae nobis iugum inponunt. Censeo homines non dubitaturos fuisse quid esset fortitudo. Non est enim inconsulta temeritas nec periculorum amor nec formidabilium appetitio: scientia est distinguendi quid sit malum et quid non sit. Diligentissima in tutela sui fortitudo est et eadem patientissima eorum quibus falsa species malorum est. 'Quid ergo? si ferrum intentatur cervicibus viri fortis, si pars subinde alia atque alia suffoditur, si viscera sua in sinu suo vidit, si ex intervallo, quo magis tormenta sentiat, repetitur et per adsiccata vulnera recens demittitur sanguis, non timet? istum tu dices nec dolere?' Iste vero dolet (sensum enim hominis nulla exuit virtus), sed non timet: invictus ex alto dolores suos spectat.

Chiedi qual è il male? Cedere ai cosiddetti mali e consegnare ad essi la propria libertà, in nome della quale bisogna sopportare ogni sofferenza: la libertà finisce, se non disprezziamo le cose che ci impongono un giogo. Penso che gl uomini non sarebbero incerti sull'atteggiamento conveniente a un uomo coraggioso. E il coraggio non è temerità sconsiderata o amore del pericolo o ricerca di situazioni spaventose: è la capacità di distinguere cos'è male e che cosa non lo è. L'uomo coraggioso è molto attento alla sua difesa e nello stesso tempo sopporta con grande fermezza gli eventi che hanno la falsa apparenza di mali."E allora? Se l'uomo forte lo minaccia una spada, se è colpito ripetutamente in più parti del corpo, se dal ventre squarciato vede le sue viscere, se viene torturato a intervalli perché senta di più i tormenti e nuovo sangue esce dalle ferite rimarginate, dirai forse che non ha paura, né tanto meno prova dolore?" Soffre, sì nessuna virtù toglie all'uomo la sensibilità, ma non ha paura: incrollabile guarda dall'alto le sue sofferenze.

Nova Lexis 2 pagina 304-305 esercizio n.6

La longevità dei greci

Gorgias Leontinus, Isocratis et complurium magni ingenii virorum praeceptor, sua sententia felicissimus fuit: nam cum centesimum et septimum ageret annum, interrogatus quapropter tam diu vellet in vita remanere, «Quia nihil» inquit «habeo quod senectutem meam accusem». Quid isto tractu aetatis aut longius aut beatius? Biennio minor Xenophilus Chalcidensis Pythagoricus fuit, sed felicitate non inferior, si quidem, ut ait Aristoxenus musicus, omnis humani incommodi expers in summo perfectissimae doctrinae splendore exstinctus est. Arganthonius autem Gaditanus octoginta annis patriam suam rexit, cum ad imperium quadraginta annos natus accessisset. Cuius rei certi sunt auctores. Asinius etiam Pollio, in tertio historiarum suarum libro centum illum et triginta annos explevisse commemorat.

Gorgia di Lentini, precettore di Isocrate e di parecchi uomini di grande ingegno, fu felicissimo nel suo giudizio: infatti all’età di centosei anni, interrogato sul perché volesse rimanere in vita così a lungo, rispose: «Perché non ho nulla di cui incolpare la mia vecchiaia». Cosa c’è di più lungo e felice di quest’età della vita? Senofilo di Calcide, Pitagorico, fu di due anni più giovane, ma non inferiore quanto a fortuna, se davvero, come afferma il musicista Aristosseno, morì durante il massimo splendore della dottrina più ineccepibile, libero da ogni malattia umana. Argantonio di Cadice, invece, governò la sua patria per ottant’anni, dopo essere salito al potere a quarant’anni. Di tal fatto gli storici sono certi. Anche Asinio Pollione, nel terzo libro della sua opera storica, ricorda che quello raggiunse i centotrenta anni d’età.

Littera Litterae 2D Pagina 157 Numero 2 "Greci più che mai longevi"
Nova Lexis 2 pag.300 esercizio n.10

PLUTARCO E LO SCHIAVO

Plutarchus, philosophus ac doctus vir, servum superbum ac philosophiae peritum habebat. Aliquando (Un giorno) servo suo - causam nescio - tunicam detrahit et loro eum (lo) caedit. Servus, dum (mentre) a Plutarcho verberatur, clamat: "Cur vapulo (Perchè vengo bastonato)? Equidem (Di certo) flagellum non mereo!". Tum Plutarcho oblatrat et verba obiurgatoria dicit: "Servus tuus a te (da te) verberabatur sed ira, ut libellus tuus adfirmat, ignominiosa est. Verus philosophus ergo non es!". Tum ita Plutarchus leniter respondetur: "Oculos truculentos non habeo, nec turbidos, neque immaniter clamo neque dedecorosa verba dico neque omnino (nè assolutamente) trepido ac gestio. Haec (Questi, nom. n. plur.) irae signa sunt".


Plutarco, filosofo e uomo dotto, aveva un servo superbo ed esperto di filosofia. Una volta al suo servo (ne ignoro la causa) tolse la tunica e lo percosse con una cinghia. Il servo, mentre veniva picchiato da Plutarco, esclamò : "perchè vengo picchiato? Certamente non merito il flagello!" Allora inveisce contro Plutarco e pronuncia parole : "Il servo tuo viene picchiato da te, ma l'ira crudele, come il tuo libro afferma, è ignobile. Allora non sei un vero filosofo!". Allora Plutarco mitemente gli rispose: "Non ho occhi furiosi, nè torbidi, e nè grido spasmodicamente , nè pronuncio parole indecorose, nè di certo tremo o gesticolo. Questi sono i segni dell'ira" .

da nova lexis 1 A-D pag. 89 n° 12

Cesare e la disciplina militare

Seditionem per decem annos Gallicis bellis nullam omnino moverunt, civilibus aliquas, sed ut celeriter ad officium redierint, nec tam indulgentia ducis quam auctoritate. Non enim cessit umquam tumultuantibus atque etiam obviam semper iit; et nonam quidem legionem apud Placentiam, quanquam in armis adhuc Pompeius esset, totam cum ignominia missam fecit aegreque post multas et supplicis preces, nec nisi exacta de sontibus poena, restituit. Decimanos autem Romae cum ingentibus minis summoque etiam urbis periculo missionem et praemia flagitantes, ardente tunc in Africa bello, neque adire cunctatus est, quanquam deterrentibus amicis, neque dimittere; sed una voce, qua "Quirites" eos pro militibus appellarat, tam facile circumegit et flexit, ut ei milites esse confestim responderint et quamvis recusantem ultro in Africam sint secuti; ac sic quoque seditiosissimum quemque et praedae et agri destinati tertia parte multavit.

I suoi soldati non si ribellarono mai per tutti i dieci anni che durò la guerra contro i Galli; lo fecero qualche volta durante la guerra civile, ma furono richiamati prontamente all'ordine, non tanto per l'indulgenza del comandante, quanto per la sua autorità. Infatti non indietreggiò mai davanti ai rivoltosi, ma sempre tenne loro testa. In particolare, presso Piacenza, quando Pompeo era ancora in armi, congedò ignominiosamente tutta quanta la nona legione, e ci vollero molte preghiere perché acconsentisse a ricostituirla, e non senza aver punito i colpevoli. A Roma, quando i soldati della decima legione reclamarono il congedo e le ricompense con terribili minacce e mettendo la città stessa nel più grande pericolo, proprio nel momento in cui la guerra divampava in Africa, egli non esitò a presentarsi davanti a loro, nonostante il parere contrario degli amici, e a congedarli. Gli fu sufficiente una sola parola, li chiamò «Quiriti», invece di «soldati», per calmarli e dominarli facilmente: gli risposero infatti che erano soldati e che, nonostante il suo rifiuto, spontaneamente lo avrebbero seguito in Africa. Ciò non gli impedì di togliere ai più sediziosi un terzo de] bottino e della terra che era stata loro destinata.

Nova Lexis 2 pag.300 esercizio n.9

Saggezza politica e valore militare

Cum plerique arbitrentur res bellicas maiores esse quam urbanas, minuenda est haec opinio. Multi enim bella saepe quaesiverunt propter gloriae cupiditatem, atque id in magnis animis ingeniisque plerumque contingit, eoque magis, si sunt ad rem militarem apti et cupidi bellorum gerendorum; vere autem si volumus iudicare multae res extiterunt urbanae maiores clarioresque quam bellicae. Quamvis enim Themistocles iure laudetur et sit eius nomen quam Solonis illustrius citeturque Salamis clarissimae testis victoriae, quae anteponatur consilio Solonis ei, quo primum constituit Areopagitas, non minus praeclarum hoc quam illud iudicandum est. Illud enim semel profuit, hoc semper proderit civitati; hoc consilio leges Atheniensium, hoc maiorum instituta servantur. Et Themistocles quidem nihil dixerit, in quo ipse Areopagum adiuverit, at ille vere se adiutum esse Themistoclem; est enim bellum gestum consilio senatus eius, qui a Solone erat constitutus. Licet eadem de Pausania Lysandroque dicere, quorum rebus gestis quamquam imperium Lacedaemoniis partum putatur, tamen ne minima quidem ex parte Lycurgi legibus et disciplinae conferendi sunt; quin etiam ob has ipsas causas et parentiores habuerunt exercitus et fortiores.

Generalmente si crede che le imprese di guerra abbiano maggior importanza che le opere di pace: questa opinione deve essere corretta. E' ben vero che molti, in ogni tempo, cercarono occasioni di guerra per solo desiderio di gloria, e ciò per lo più accade in persone di grande animo e di grande ingegno, tanto più se hanno attitudine all'arte militare e istintivo desiderio di guerreggiare; ma, se vogliamo giudicare secondo verità, la storia ci offre molti esempi azioni civili ancor più grandi e più belle delle imprese guerresche. Si lodi pure a buon diritto Temistocle; sia pure il suo nome più illustre di quello di Solone, e si chiami Salamina a testimonianza d'una famosissima vittoria, per anteporla al provvedimento col quale Solone per la prima volta istituì l'Areopago; ma questo provvedimento è da giudicarsi non meno luminoso di quella vittoria: questa non giovò che una sola volta, quello invece gioverà in ogni tempo allo Stato. E' questo consesso che custodisce le leggi d'Atene; è questo che preserva le istituzioni degli avi E mentre Temistocle non potrebbe vantarsi d'aver giovato in nulla all'Areopago, Solone avrebbe invece ogni ragion di dire che egli giovò a Temistocle, in quanto la guerra fu condotta per consiglio di quel senato che Solone aveva istituito.Lo stesso può dirsi di Pausania e di Lisandro, le cui imprese, pur avendo ampliato, come si crede, l'impero agli Spartani, tuttavia non si possono neppure lontanamente paragonare con le leggi e gli ordinamenti di Licurgo; anzi, proprio in virtù di questi, essi ebbero eserciti più disciplinati e più agguerriti.

Nova Lexis 2 pag.299 es numero 7

Gli anziani non temano la morte

O miserum senem qui mortem contemnendam esse in tam longa aetate non viderit! quae aut plane neglegenda est, si omnino exstinguit animum, aut etiam optanda, si aliquo eum deducit, ubi sit futurus aeternus; Quid igitur timeam, si aut non miser post mortem aut beatus etiam futurus sum? Quamquam quis est tam stultus, quamvis sit adulescens, cui sit exploratum se ad vesperum esse victurum? Quin etiam aetas illa multo pluris quam nostra casus mortis habet; facilius in morbos incidunt adulescentes, gravius aegrotant, tristius curantur. Itaque pauci veniunt ad senectutem; quod ni ita accideret, melius et prudentius viveretur. Mens enim et ratio et consilium in senibus est; qui si nulli fuissent, nullae omnino civitates fuissent. Sed redeo ad mortem impendentem. Quod est istud crimen senectutis, cum id ei videatis cum adulescentia esse commune? "At sperat adulescens diu se victurum, quod sperare idem senex non potest". Insipienter sperat. Quid enim stultius quam incerta pro certis habere, falsa pro veris? "At senex ne quod speret quidem habet". At est eo meliore condicione quam adulescens, quoniam id, quod ille sperat, hic consecutus est; ille vult diu vivere, cum hic diu iam vixerit.

Povero il vecchio, che non ha capito che in una esistenza così lunga la morte non deve essere deve essere disprezzata. Questa o deve essere completamente trascurata, se sopprime del tutto l'anima, oppure deve essere perfino desiderata, se la conduce in un qualche luogo in cui è destinata ad essere eterna; Pertanto che cosa dovrei temere, se dopo la morte sarò destinato o a non essere infelice o ad essere felice? Chi è tanto stolto da essere sicuro, anche se è giovane, che vivrà fino a tarda età? Ché anzi quella età ha di gran lunga più possibilità di morte che la nostra: i giovani prendono imbattono in malattie più facilmente, più gravemente si ammalano, con più difficoltà sono curati. Ma ritorno alla morte che minaccia: che difetto è questa della vecchiaia, se vi sembra che sia in comune con la gioventù? "Eppure il giovane spera di vivere a lungo, mentre il vecchio non può sperare la stessa cosa". Lo spera irragionevolmente: cosa c'è infatti di più sciocco che dare per certo ciò che è incerto, dare per vere cose false? "Ma il vecchio non ha neppure qualcosa in cui sperare". Eppure egli si trova in una condizione migliore rispetto a quella del giovane, poiché ciò che questo spera, lui l'ha già ottenuto: quello vuol vivere a lungo, mentre lui ha già vissuto a lungo.

Littera Litterae (2D) Pagina 156 Numero 1
Nova Lexis 2 Pagina 298-299 Numero 6

Verso la resa dei Pompeiani

Caesar castris potitus a militibus contendit, ne in praeda occupati reliqui negotii gerendi facultatem dimitterent. Qua re impetrata montem opere circummunire instituit. Pompeiani, quod is mons erat sine aqua, diffisi ei loco relicto monte universi iugis eius Larisam versus se recipere coeperunt. Qua re animadversa Caesar copias suas divisit partemque legionum in castris Pompei remanere iussit, partem in sua castra remisit, IIII secum legiones duxit commodioreque itinere Pompeianis occurrere coepit et progressus milia passuum VI aciem instruxit. Qua re animadversa Pompeiani in quodam monte constiterunt. Hunc montem flumen subluebat. Caesar milites cohortatus, etsi totius diei continenti labore erant confecti noxque iam suberat, tamen munitione flumen a monte seclusit, ne noctu aquari Pompeiani possent. Quo perfecto opere illi de deditione missis legatis agere coeperunt. Pauci ordinis senatorii, qui se cum eis coniunxerant, nocte fuga salutem petiverunt.

Cesare, impadronitosi del campo, chiese insistentemente ai soldati, occupati a fare bottino, di non sprecare l'occasione per condurre a termine il resto dell'impresa. Ottenuto ciò, cominciò a fare lavori di fortificazione intorno al monte. I Pompeiani, poiché il monte era senza acqua, non si fidarono a rimanere in quella posizione e, lasciato il monte, tutti insieme cominciarono a dirigersi attraverso le giogaie verso Larissa. Accortosi di ciò, Cesare divise le sue truppe e ordinò a una parte delle legioni di rimanere nel campo di Pompeo, ne rimandò una parte nel proprio accampamento, condusse quattro legioni con sé e per una strada più comoda iniziò a marciare per sbarrare la strada ai Pompeiani. Avanzato seimila passi, schierò le truppe a battaglia. Visto ciò, i Pompeiani si fermarono su un monte, ai piedi del quale scorreva un fiume. Cesare rivolse parole di incoraggiamento ai soldati e, sebbene fossero sfiniti dalla fatica continua di tutta la giornata e ormai si avvicinasse la notte, tuttavia fece isolare con una fortificazione il fiume dal monte perché di notte i Pompeiani non potessero rifornirsi di acqua. Compiuta questa operazione, i Pompeiani cominciarono a trattare la resa mandando ambasciatori. Alcuni esponenti dell'ordine senatorio, che si erano uniti ai Pompeiani, di notte cercarono salvezza nella fuga.

Nova Lexis 2 pagina 298 esercizio n.5

Roma conquista la Liguria di Ponente

Dum haec in Macedonia geruntur, L Aemilius Paulus, prorogato ex consulatu imperio, principio veris in Ligures Ingaunos induxit exercitum. Ubi primum in hostium finibus castra posuit, legati ad eum per speciem pacis petendae speculatum venerunt. Neganti Paulo nisi cum deditis pacisci se pacem, non tam id recusabant, quam tempore aiebant opus esse ut suis persuaderent. Ad hoc decem dierum indutiae cum darentur, petierunt deinde, ne trans montes proximos castris pabulatum lignatumque milites irent: culta ea loca suorum finium esse. Id ubi impetravere, post eos ipsos montes, unde averterant hostem, exercitu omni coacto, repente moltitudine ingenti castra Romanorum oppugnare simul omnibus portis adgressi sunt. Summa vi totum diem oppugnarunt, ita ut ne efferendi quidem signa Romanis spatium nec ad explicandam aciem locus esset. Conferti in portis obstando magis quam pugnando castra tutabantur. Sub occasum solis, cum recessissent hostes, duosequites ad Cn. Baebium proconsulem cum litteris Pisas mittit, ut obsesso sibi quam subsidio veniret.

Mentre in Macedonia accadono queste cose, Lucio Emilio Paolo, avendo prolungato il comando dal consolato, all’inizio della primavera guidò l’esercito contro i Liguri Ingauni. Appena allestì l’accampamento nei confini dei nemici, vennero a lui ambasciatori per spiare col pretesto di chiedere la pace. A Paolo che non voleva stipulare la pace se non con degli arresi, non tanto rifiutavano ciò, quanto dicevano che c’era bisogno di tempo per convincere i loro. Essendo stata concessa per ciò una tregua di dieci giorni, chiesero inoltre che i soldati non andassero a procurarsi cibo e legna oltre i monti vicini all’accampamento: dicevano che questi territori dei loro confini erano coltivati. Come ottennero ciò, radunato tutto l’esercito dietro quegli stessi monti da cui avevano allontanato il nemico, andarono ad attaccare con ingenti truppe all’improvviso e contemporaneamente da tutte le porte l’accampamento dei Romani. Combatterono tutto il giorno con grandissimo ardore, in modo che non vi fosse neppure lo spazio per i Romani di portar fuori le insegne né posto per schierare l’esercito. Costretti entro le porte, difendevano l’accampamento più contrastando che combattendo. Verso il tramonto, essendosi i nemici ritirati, mandò a Pisa due cavalieri con un messaggio dal proconsole Gneo Bebio, affinché venisse in soccorso a lui assediato.

Nova Lexis 2 Pagina 294 Numero 4

L'odio di Amilcare e di Annibale per i romani

Hamilcar, postquam mare transiit in Hispaniamque venit, magnas res secunda gessit fortuna: maximas bellicosissimasque gentes subegit; equis armis viris pecunia totam locupletavit Africam. Hic cum in Italiam bellum inferre meditaretur nono anno postquam in Hispaniam venerat in proelio pugnans adversus Vettones occisus est. Huius perpetuum odium erga Romanos maxime concitasse videtur secundum bellum Poenicum. Namque Hannibal filius eius assiduis patris obtestationibus eo est perductus ut interire quam Romanos non experiri mallet. Hic, nisi domi civium suorum invidia debilitatus esset, Romanos videtur superare potuisse. Sed multorum obtrectatio devicit unius virtutem. Hic autem velut hereditate relictum odium paternum erga Romanos sic conservavit, ut prius animam quam id deposuerit, qui quidem, cum patria pulsus esset et alienarum opum indigeret, numquam destiterit animo bellare cum Romanis.

Amilcare, dopo aver passato il mare ed essere giunto in Spagna, intraprese vaste azioni con ottimo successo: sottomise grandi e bellicosissime popolazioni e arricchì tutta l'Africa di cavalli, armi, uomini e denaro. E otto anni dopo la sua venuta in Spagna già progettava di portare la guerra in Italia, quando cadde combattendo contro i Vettoni. E se non fosse stato indebolito dall'ostilità dei suoi concittadini in patria, sembra che avrebbe potuto sconfiggere i Romani. Ma l'ostilità di molti vinse il valore di uno solo. In lui l'odio per i Romani lasciatogli dal padre come un'eredità era così radicato, in modo tale che lasciò la vita prima di lasciare quell’odio, tanto che non cessò mai di combattere con l'animo contro i Romani, sebbene fosse stato cacciato dalla sua patria e avesse bisogno dei soccorsi altrui. Il suo inestinguibile odio contro i Romani probabilmente diede origine alla seconda guerra punica, perchè proprio dagli incessanti incitamenti del padre il figlio Annibale fu portato al punto da preferire la morte a rinunciare a cimentarsi contro i Romani.

Nova Lexis 2 pag.294 esercizio n.3

Manovre politiche di Clodio contro Milone

Publius Clodius, cum statuisset omni scelere in praecetura vexare rem publicam videretque ita tracta esse comitia anno superiore ut non multos menses praeceturam gerere posset, qui non honoris gradum spectaret, ut celeri, sed et L. Paulum conlegam effugere vellet, singulari virtute civem, et annum integrum ad dilacerandam rem publicam quaereret, subito reliquit annum suum seseque in proximum transtulit, non, ut fit, religione aliqua, sed ut haberet, quod ipse dicebat, ad praeturam gerendam, hoc est ad evertendam rem publicam, plenum annuma tque integrum. Occurrebat ei mancam ac debilem praeturam futuram asse suam consule Milone; eum porro summo consensu populi Romani consulem fieri videbat. Contulit se ad eius competirores, sed ita totam ut petitorem ipse solus etiam invitis illis gubernaret, tota ut comitia suis, ut dictibat, umeris sustineret. Convocabat tribus, se interponebat, Collinam novam dilectu perditissimorumcivium conscribebat. Quanto Clodius plura miscebat, tnto Milo magis in dies convalescebat.

Publio Clodio aveva intenzione in qualità di pretore di perturbare l'ordine pubblico con ogni sorta di angherie; vedeva che l'anno scorso le elezioni andavano per le lunghe, a tal punto che non avrebbe potuto ricoprire la pretura per più di qualche mese; dato che non mirava come tutti gli altri al vertice della carriera, ma desiderava solo evitare di avere per collega Lucio Paolo, cittadino di rara virtù, e tentava di dedicare un anno intero allo smembramento della repubblica, rinunciò immediatamente alla sua candidatura per quell'anno e la rinviò al successivo, non, come capita talvolta, per qualche superstizione, ma per avere a disposizione un anno pieno e completo per la gestione della pretura, come sosteneva lui, ossia – in realtà - per rovesciare l'ordine costituito. Ma si rendeva anche conto che, con Milone console, la sua pretura sarebbe stata monca e fragile; intuiva per l'appunto che questi sarebbe stato eletto console col consenso unanime del popolo romano. Si diede allora a favorire i concorrenti di Milone, ma in modo tale da essere lui solo, anche a loro insaputa, a portare avanti le loro candidature, e a sostenere, come andava ripetendo, sulle proprie spalle l'intera propaganda elettorale. Convocava le tribù, faceva da mediatore, costituiva una seconda Collina, iscrivendovi i cittadini più turbolenti. Quanto più quegli mescolava le carte, tanto più Milone rafforzava di giorno in giorno la sua posizione.
Come quell'individuo, prontissimo ad ogni crimine, si avvide che un uomo tanto valente, tanto ostile a lui, era tanto prossimo al consolato, e comprese che tale esito era stato più volte manifestato non solo nei discorsi, ma anche nelle votazioni del popolo romano, cominciò ad agire pubblicamente e a dichiarare apertamente che Milone andava ucciso.

Nova Lexis 2 Pagina 293 Numero 2

Crudeltà e ambizione di Galba

Per octo annos varie et inaequabiliter provinciam rexit, primo acer et vehemens et in coercendis quidem delictis vel immodicus. Nam et nummulario non ex fide versanti pecunias manus amputavit mensaeque eius adfixit, et tutorem, quod pupillum, cui substitutus heres erat, veneno necasset, cruce adfecit; implorantique leges et civem Romanum se testificanti, quasi solacio et honore aliquo poenam levaturus, mutari multoque praeter ceteras altiorem et dealbatam statui crucem iussit. Paulatim in desidiam segnitiemque conversus est, ne quid materiae praeberet Neroni, et ut dicere solebat, quod nemo rationem otii sui reddere cogeretur. Carthagine nova conventum agens tumultuari Gallias comperit legato Aquitaniae auxilia implorante; supervenerunt et Vindicis litterae hortantis, ut humano generi assertorem ducemque se accommodaret. Nec diu cunctatus, condicionem partim metu, partim spe recepit.

Governò la sua provincia per otto anni in modo incostante e ineguale; in un primo tempo si mostrò pieno di ardore, energico e perfino esagerato nella repressione dei delitti. Infatti fece tagliare le mani ad un cambiavalute disonesto, ordinando di appenderle sul suo banco; fece avvelenare un tutore che aveva avvelenato un orfano di cui era stato nominato erede e poiché quello invocava la legge affermando di essere un cittadino romano, Galba, quasi per consolarlo e addolcire il suo supplizio con qualche nota d'onore, diede ordine di cambiare la croce e di erigerne un'altra molto più alta e dipinta di bianco. A poco a poco si abbandonò all'inerzia e all'indolenza per non offrire pretesti a Nerone e, come era solito dire, «perché nessuno è costretto a rendere conto della propria inattività». Stava tenendo le sue assise a Cartagine Nuova quando dal luogotenente dell'Aquitania che chiedeva aiuti venne a sapere che i Galli si sollevavano; nel frattempo arrivò anche una lettera di Vindice che lo esortava «ad offrirsi come liberatore e come guida del genere umano». Dopo un breve indugio, accettò la proposta, spinto un po' dalla paura, un po' dalla speranza.

Nova Lexis 2 Pagina 292 Numero 1

OTTAVIANO AUGUSTO

Post maestum Caesaris exitium , Octavianus solus , Caesaris nepos sumebat imperium . Contra Octavianum etiam Antonius , Octaviani cognatus , magno studio imperium desiderabat ; nam , repudiabat pulchram Octaviani sororem ( sorella accusativo ) et ducebat in matrimonium Cleopatram , reginam Aegypti validam et opulentam ; nam regina multum aurum et argentum et lapillos pretiosos et magnum populum habebat . Antonius et cleopatra cum multis navigiis et copiis contra Romam veniebant.....


Dopo la triste uscita di Cesare,da solo Ottaviano,nipote di Cesare,si assumeva il comando.Opposto ad Ottaviano,anche Antonio,Cognato di Ottaviano,desiderava con grande passione il dominio.infatti,ripudia la bella sorella di ottaviano e condusse in matrimonio cleopatra,regina d'egitto valorosa e ricca.infatti la regina possedeva molto oro,argento,pietre preziose e un popolo numeroso.Antonio e cleopatra andarono contro roma con molte navi ed eserciti.Ottaviano invece con un solido esercito intraprese una battaglia contro antonio e cleopatra.


da nova lexis 1 A-D pag. 84 n° 1

Littera Ltterae 1B

Libro - Littera Litterae (1B)



Pag.

Num.

Titolo

Autore

20

1

Le insidie del deserto


21

3

I banchetti di Eliogabalo


22

4

Scipione in Spagna


22

5

La battaglia di Salamina


26

1

Il poeta Tirteo


27

2

La rivolta di Fidene e di Veio


27

3

Cesare inizia l'assedio di Alesia

Cesare

27

4

La personalità di Alcibiade

Cornelio Nepote

39

4

Definizioni e concetti di geometria


43


La religione dei Romani


51

1

Alessandro il Macedone uccide l'amico Clito

Curzio Rufo

52

2

Confronto tra Filippo e Alessandro

Giustino

52

3

Profilo di Cesare


53

4

L'oracolo di Delfi

Giustino

56

1

Elogio della Campania


59

1

La prima guerra Persiana

Cornelio Nepote

60

2

La condanna di Milziade

Cornelio Nepote

60

3

Il regno di Cambise

Giustino

77


La parabola del seminatore


85

1

Pirro conquista la Macedonia

Giustino

86

3

La plebe rinuncia alla secessione


87

4

La seconda guerra punica (218-202 s.C.)


91

1

La cena di Nasidieno


91

2

Un decemviro indegno


92

3

Il potere imperiale deriva da Dio


97

1

Milziade abbandona la conquista di Paro


97

2

Gli Aduàtuci

Cesare

98

3

Una spedizione contro i Sènoni


109

3

La resurrezione di Gesù (Matteo 28, 1-8)


117


Il destino incombe


119

5

Non si devono disprezzare gli umili


121


Gli abiti di Cesare e di Augusto


127

1

Un tradimento di Venere


128

2

L'avventura di Arione


128

3

Abiti e decorazioni per il trionfo

Livio

128

4

Astuzia di un filosofo


129

5

La tunica e la toga


133

1

Fasi della prima guerra punica


134

2

La battaglia navale di Milazzo (260 a.C.)


134

3

La Grecia difende la sua libertà


140

1

Un nuovo rito in onore di Cerere

Livio

140

2

Sacrifici e ludi a Roma


141

3

Annibale si procura alleati


159


L'oratore Ortensio

Cicerone

165

1

Il lupo e il cane

Fedro

166

2

Gli dèi adorati dai Galli


166

3

Le costituzioni imperiali


167

4

Vicende di storia romana agli inizi della repubblica

Eutropio

171

1

Bilancio dopo la battaglia di Farsàlo (48 a.C.)

Cesare

172

2

Giovinezza di Eumene

Cornelio Nepote

172

3

I magistrati e la legge


191


Marco Tullio Cicerone saluta Tirone


197

1

La tenacia e la fortuna premiano Gaio Mario


198

3

Cesare prepara l'attacco

Cesare

203

1

Attacco degli Eburoni

Cesare

204

3

Una figlia particolare


204

4

La felicità non sta nelle ricchezze


209


Gli antichi si rilassavano con passatempi

Seneca

214

1

I Romani sbarcano in Britannia

Cesare

215

2

Un ambiguo sogno di Amilcare

Valerio Massimo

215

3

Un bagno quasi fatale ad Alessandro

Curzio Rufo

215

4

L'uomo è socievole per natura

Cicerone

223

1

Il viaggio di Enea da Troia al Lazio


224

2

L'imperatore Augusto gioca con i bambini

Svetonio

224

3

La regina viarum


225

4

Romolo, primo re di Roma


225

5

I Pigmei


225

6

Profilo di Alcibiade

Macrobio

230

1

Difficile scontro con i Germani


230

2

Il giovane Annibale all'assedio di Sagunto


245

10

Uno stratagemma per salvare Lampasco


247

8

Fine dell'avanzata di Alessandro Magno


248

2

La distruzione di Cartagine


249

3

Un imperatore ghiotto e goloso

Svetonio

249

4

Resa degli Elvezi

Cesare

249

5

La sconfitta presso l'Allia

Livio

250

6

L'affetto di Manlio per il padre


250

7

L'apologo di Menenio Agrippa


250

8

Dionigi il giovane


251

10

Consolato e censura di Catone


251

11

Le Idi di marzo (44 a.C.)


251

9

Paride


260

2

Alessandro Magno


264

1

Funzione del senato a Roma