Sallustio dalle Historiae, Epistula Mithridatis

Lettera di Mitridate

Il re Mitridate al re Arsace salute. – Tutti coloro che in momenti di prosperità sono richiesti di un’alleanza di guerra, debbono considerare se sia loro possibile conservare allora la pace, e poi se ciò che loro si chiede sia abbastanza giusto, sicuro, glorioso o disonorevole. Se tu potessi goderti una pace senza fine, se non vi fosse un nemico così scellerato ma esposto a un tuo attacco, se una nobile fama non ti dovesse derivare dall’aver battuti i Romani, non oserei io chieder la tua alleanza e invano spererei di fonder la mia mala sorte con la tua prosperità. E quegli stessi argomenti che sembrerebbero poterti trattenere – l’ira contro Tigrane per l’ultima guerra, e il mio poco prospero stato -, se tu vorrai argomentar veracemente, son proprio quelli che più d’ogni altra cosa incitare ti debbono. Però che colui, per esserti colpevole, accetterà l’alleanza comunque tu l’imporrai; quanto a me, la fortuna, dopo tante perdite, mi ha fatto esperto nel dar buoni consigli; e, cosa desiderabile per chi è in auge, io, benché non sia il più forte, offro un esempio, con cui tu potrai più opportunamente le cose tue ordinare.

Giacché i Romani, un solo e ormai vecchio motivo hanno di far guerra alle nazioni, ai popoli, ai re tutti quanti: la smisurata brama di dominio e di ricchezze. Per questa essi da prima mossero guerra a Filippo re dei Macedoni, mentre, premunti dai Cartaginesi, gli si simulavano amici. E quando Antioco avanzò in aiuto di lui, con la concessione dell’Asia a frode ne lo allontanarono; ma, appena battuto Filippo, ei si trovò spogliato di tutto il territorio di qua dal Tauro e di diecimila talenti. Poscia, dopo molti e vari scontri, Perseo, figlio di Filippo, si consegnò loro a patti, sulla fede degli dèi di Samotracia; ma essi, astuti, e inventori di perfidie, poiché nei patti gli avean concesso la vita, d’insonnia lo fecero morire. Eumene, della cui amicizia boriosi si millantano, da prima lo consegnarono ad Antioco come prezzo della pace; di poi, trattandolo come custode di un territorio occupato, a forza di estorsioni e di oltraggi, di re che era lo fecero il più miserevole degli schiavi, e, falsificato un empio testamento, il figlio di lui, Aristonico, perché aveva richiesto il regno del padre, come un nemico trasser in trionfo, e l’Asia cinsero come d’assedio. Da ultimo, morto Nicomede, misero a sacco la Bitinia, quantunque un suo figlio fosse senz’ombra di dubbio nato da Nisa, che egli aveva nominata regina.

E debbo proprio portare in causa me stesso? Da ogni parte, regni e tetrarchie mi separavan dall’impero loro; ma perché avevo fama d’esser ricco e non disposto a servire, per mezzo di Nicomede mi provocarono a guerra; e pure egli non era ignaro del loro crimine, e aveva attestato – come accadde – che soli fra tutti i Cretesi e il re Tolomeo rimanevano liberi in quella contingenza. Ma io, vendicata l’ingiuria di Nicomede, lo cacciai dalla Bitinia, ripresi l’Asia, spoglia rapita al re Antioco, e da grave servitù la Grecia liberai. Avevo ben cominciato; ma Archelao, l’ultimo degli schiavi, consegnando loro il mio esercito, mi fermò. E coloro che per ignavia o per calcolo malvagio, pensando d’essere al sicuro a mie spese, si astennero dalle armi, ora ne pagano amarissimo il fio: Tolomeo a prezzo di giorno in giorno rinvia la guerra, i Cretesi, già una volta vinti, non avranno altra fine che lo sterminio. Quanto a me, bene intendendo che le loro discordie intestine erano più una dilazion della guerra che una pace sicura, malgrado il rifiuto di Tigrane, che troppo tardi approva ora i miei detti, benché tu fossi lontano e remoto e tutti gli altri soggetti, tuttavia ricominciai la guerra, e presso Calcèdone sbaragliai per terra Marco Cotta, il romano duce, e per mare lo spogliai di una bellissima flotta. Mentre davanti a Cizico con un grande esercito prolungavo l’assedio, mi mancarono i viveri, senza che nessuno dei vicini mi venisse in aiuto, mentre l’inverno mi chiudeva i mari. Così, senza che il nemico mi vi costringesse, mi apprestai a tornare nel regno paterno; ma in due naufragi presso Paro e presso Eraclea perdetti con le flotte il fior dei soldati. Ricostituito di poi presso Cabera l’esercito, e dopo alcuni scontri con esito alterno fra me e Lucullo, ambedue fummo dalla carestia sorpresi. Egli aveva lì presso il regno di Ariobarzane, non ancor tocco dalla guerra; io trovandomi cinto d’ogni parte da terre devastate, mi ritirai in Armenia. E i Romani, seguendo non me, ma l’uso loro di sovvertir tutti i regni, dopo aver impedito alle nostre masse di combattere serrandole in posizioni anguste, ostentan come loro vittoria l’imprevidenza di Tigrane.

Ed ora poni mente, ti prego: quand’io sarò schiacciato, credi tu di esser più solido per la resistenza o che ne derivi la fine della guerra? Sì, io so che tu hai gran copia di uomini, d’armi e di oro: onde noi ti invochiamo alleato, mentre quelli ti braman lor preda. Del resto, il mio piano è questo. Il regno di Tigrane è ancora intatto, i miei soldati son bene esperti di guerra; lontani da voi, con poca fatica, coi nostri corpi, noi termineremo la guerra. Ma questa non possiamo né vincerla né perderla senza un tuo grave rischio. Ignori dunque che i Romani, fermati dall’Oceano nella marcia verso occidente, l’armi loro hanno verso di noi rivolte? che fin da principio nulla per loro vi fu, patria, mogli, terre, potenza, che rapinato non fosse? che vagabondi un tempo, senza patria e bastardi, si sono uniti per esser la peste della terra? che non si lascian fermare da nessuna legge umana e divina nell’assorbire e annientare alleati ed amici, vicini e lontani, deboli e forti? e che chiunque non obbedisce loro, i re anzitutto, è un nemico? Ora, pochi popoli voglion la libertà; i più si contentano di una giusta signoria: noi siam sospetti come rivali e come – un giorno – futuri vendicatori. E tu, che hai Seleucia, la regina delle città, che hai il regno di Persia per opulenza famoso, che ti aspetti da loro se non l’inganno oggi e la guerra domani? I Romani han pronte le armi contro tutti, ma più furibonde contro coloro da cui la vittoria potrà trarre un bottino più grande. Grandi si son fatti con l’audacia e con l’inganno e con l’intrecciar guerre alle guerre. Con questa codotta, o annienteranno tutto o periranno. E ciò non sarà difficile, se tu dalla Mesopotamia e noi dall’Armenia avvolgeremo un esercito che non ha viveri né aiuti, ma che la fortuna o i nostri errori hanno lasciato intatto fin oggi. E tu avrai la gloria d’esser partito in soccorso di due grandi re e di aver così schiacciato i ladroni delle genti. Fàllo, dunque; te lo consiglio, te ne esorto, salvoché tu non preferisca differir con la nostra ruina la tua, anziché, alleato con noi, riuscir vincitore.

Rex Mithridates regi Arsaci salutem. Omnes, qui secundis rebus suis ad belli societatem orantur, considerare debent, liceatne tum pacem agere, dein, quod quaesitur, satisne pium tutum gloriosum an indecorum sit. Tibi si perpetua pace frui licet, nisi hostes opportuni et scelestissumi, egregia fama, si Romanos oppresseris, futura est, neque petere audeam societatem et frustra mala mea cum bonis tuis misceri sperem. Atque ea, quae te morari posse videntur, ira in Tigranem recentis belli et meae res parum prosperae, si vera existumare voles, maxume hortabuntur. Ille enim obnoxius qualem tu voles societatem accipiet; mihi fortuna multis rebus ereptis usum dedit bene suadendi et, quod florentibus optabile est, ego non validissumus praebeo exemplum, quo rectius tua conponas. Namque Romanis cum nationibus populis regibus cunctis una et ea vetus causa bellandi est: cupido profunda imperi et divitiarum. Qua primo cum rege Macedonum Philippo bellum sumpsere, dum a Carthaginiensibus premebantur, amicitiam simulantes. Ei subvenientem Antiochum concessione Asiae per dolum avortere, ac mox fracto Philippo Antiochus omni cis Taurum agro et decem milibus talentorum spoliatus est. Persen deinde, Philippi filium, post multa et varia certamina apud Samothracas deos acceptum in fidem callidi et repertores perfidiae, quia pacto vitam dederant, insomniis occidere. Eumen, quoius amicitiam gloriose ostentant, initio prodidere Antiocho pacis mercedem; post, habitum custodiae agri captivi, sumptibus et contumeliis ex rege miserrumum servorum effecere, simulatoque inpio testamento filium eius Aristonicum, quia patrium regnum petiverat, hostium more per triumphum duxere; Asia ab ipsis obsessa est. Postremo Bithyniam Nicomede mortuo diripuere, quom filius Nysa, quam reginam appellaverat, genitus haud dubie esset. Nam quid ego me appellem? quem diiunctum undique regnis et tetrarchiis ab imperio eorum, quia fama erat divitem neque serviturum esse, per Nicomedem bello lacessiverunt, sceleris eorum haud ignarum et ea, quae adcidere, testatum antea Cretensis, solos omnium liberos ea tempestate, et regem Ptolemaeum. Atque ego ultus iniurias Nicomedem Bithynia expuli Asiamque, spolium regis Antiochi, recepi et Graeciae dempsi grave servitium. Incepta mea postremus servorum Archelaus exercitu prodito inpedivit. Illique, quos ignavia aut prava calliditas, ut meis laboribus tuti essent, armis abstinuit, acerbissumas poenas solvunt, Ptolemaeus pretio in dies bellum prolatans, Cretenses inpugnati semel iam neque finem nisi excidio habitur. Equidem quom mihi ob ipsorum interna mala dilata proelia magis quam pacem datam intellegerem, abnuente Tigrane, qui mea dicta sero probat, te remoto procul, omnibus aliis obnoxiis, rursus tamen bellum coepi, Marcumque Cottam, Romanum ducem, apud Calchedona terra fudi, mari exui classe pulcherruma. Apud Cyzicum magno cum exercitu in obsidio moranti frumentum defuit, nullo circum adnitente; simul hiems mari prohibebat. Ita sine vi hostium regredi conatus in patrium regnum naufragiis apud Parium et Heracleam militum optumos cum classibus amisi. Restituto deinde apud Caberam exercitu et variis inter me atque Lucullum proeliis inopia rursus ambos incessit. Illi suberat regnum Ariobarzanis bello intactum, ego vastis circum omnibus locis in Armeniam concessi. Secutique Romani non me, sed morem suom omnia regna subvortundi, quia multitudinem artis locis pugna prohibuere, inprudentiam Tigranis pro victoria ostentant. Nunc quaeso considera, nobis oppressis utrum firmiorem te ad resistundum an finem belli futurum putes? scio equidem tibi magnas opes virorum, armorum et auri esse; et ea re a nobis ad societatem, ab illis ad praedam peteris. Ceterum consilium est. Tigranis regno integro meis militibus procul ab domo [parvo labore] per nostra corpora bellum conficere, quo[m] neque vincere neque vinci sine tuo periculo possumus. An ignoras Romanos, postquam ad occidentem pergentibus finem Oceanus fecit, arma huc convortisse? neque quicquam a principio nisi raptum habere, domum coniuges agros imperium? convenas olim sine patria parentibus, peste conditos orbis terrarum; quibus non humana ulla neque divina obstant, quin socios amicos, procul iuxta sitos, inopes potentisque trahant excindant, omniaque non serva et maxume regna hostilia ducant? namque pauci libertatem, pars magna iustos dominos volunt; nos suspecti sumus aemuli et in tempore vindices adfuturi. tu vero, quoi Seleucea, maxuma urbium, regnumque Persidis inclutis divitiis est, quid ab illis nisi dolum in praesens et postea bellum expectas? Romani arma in omnis habent, acerruma in eos, quibus victis spolia maxuma sunt; audendo et fallundo et bella ex bellis serundo magni facti: per hunc morem extinguent omnia aut occident ... quod haud difficile est. Si tu Mesopotamia, nos Armenia circumgredimur exercitum sine frumento, sine auxiliis, fortuna aut nostris vitiis adhuc incolumem. Teque illa fama sequetur, auxilio profectum magnis regibus latrones gentium oppressisse. Quod uti facias, moneo hortorque, neu malis pernicie nostra tuam prolatare quam societate victor fieri.

Sallustio dalle Historiae, Epistula Mithridatis

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