La peste di Atene (Lucrezio, De rerum natura, VI, 1145-1196)

E' la narrazione della peste che si abbattè su Atene nel 430 a.C. e che già Tucidide aveva narrato.

Dapprima avevano il capo in fiamme per il calore
e soffusi di un luccichìo rossastro ambedue gli occhi.
La gola, inoltre, nell'interno nera, sudava sangue,
e occluso dalle ulcere il passaggio della voce si serrava,
e l'interprete dell'animo, la lingua, stillava gocce di sangue,
infiacchita dal male, pesante al movimento, scabra al tatto.
Poi, quando attraverso la gola la forza della malattia
aveva invaso il petto ed era affluita fin dentro il cuore afflitto
dei malati, allora davvero vacillavano tutte le barriere della vita.
Il fiato che usciva dalla bocca spargeva un puzzo ributtante,
simile al fetore che mandano i putridi cadaveri abbandonati.
Poi le forze dell'animo intero ‹e› tutto il corpo
languivano, già sul limitare stesso della morte.
E agli intollerabili mali erano assidui compagni
un'ansiosa angoscia e un lamentarsi commisto con sospiri.
E un singhiozzo frequente, che spesso li costringeva notte e giorno
a contrarre assiduamente i nervi e le membra, li struggeva
aggiungendo travaglio a quello che già prima li aveva spossati.
Né avresti notato che per troppo ardore in alcuno
bruciasse alla superficie del corpo la parte più esterna,
ma questa piuttosto offriva alle mani un tiepido contatto,
e insieme tutto il corpo era rosso d'ulcere quasi impresse a fuoco,
come accade quando per le membra si diffonde il fuoco sacro.
Ma la parte più interna in quegli uomini ardeva fino alle ossa,
nello stomaco ardeva una fiamma, come dentro fornaci.
Sicché non c'era cosa, benché lieve e tenue, con cui potessi giovare
alle membra di alcuno, ma vento e frescura cercavano sempre.
Alcuni immergevano nei gelidi fiumi le membra ardenti
per la malattia, gettando dentro le onde il corpo nudo.
Molti caddero a capofitto nelle acque di pozzi profondi,
mentre accorrevano protendendo la bocca spalancata.
La sete che li riardeva inestinguibilmente e faceva immergere
i corpi, rendeva pari a poche gocce molta acqua.
E il male non dava requie: i corpi giacevano
stremati. La medicina balbettava in un muto sgomento,
mentre quelli tante volte rotavano gli occhi spalancati,
ardenti per la malattia, privi di sonno.
E molti altri segni di morte si manifestavano allora:
la mente sconvolta, immersa nella tristezza e nel timore,
le ciglia aggrondate, il viso stravolto e truce,
le orecchie, inoltre, tormentate e piene di ronzii,
il respiro frequente o grosso e tratto a lunghi intervalli,
e stille di sudore lustre lungo il madido collo,
sottili sputi minuti, cosparsi di color di croco
e salsi, a stento cavati attraverso le fauci da una rauca tosse.
Non cessavano, poi, di contrarsi i nervi nelle mani e di tremare
gli arti, e di montare su dai piedi a poco a poco il freddo.
Così, quando alfine si appressava il momento supremo,
erano affilate le narici, assottigliata e acuta la punta
del naso, incavati gli occhi, cave le tempie, gelida e dura
la pelle nel volto, cascante la bocca aperta; la fronte rimaneva tesa.
E non molto dopo le membra giacevano irrigidite dalla morte.

(Lucrezio, De rerum natura, VI, 1145-1196)

Lucrezio, De rerum natura, IV, vv. 1058-1140

Questa è Venere per noi; di qui il nome amore,
di qui prima stillarono dolcissime gocce
nel cuore, e a vicenda successe la gelida pena;
se infatti è lontano chi ami, ti è accanto l’immagine
del suo volto, ti aleggia alle orecchie il suo nome soave.
Ma conviene che tali fantasmi si fuggano, che si ricusi
Ogni alimento d’amore, ad altro il pensiero si volga,
e il seme si eiaculi in casuali amplessi,
né lo si serbi, una volta filtrato, a un amore esclusivo,
futura pena a se stessi e sicuro travaglio.
Brucia l’intima piaga a nutrirla e col tempo incarnisce,
divampa nei giorni l’ardore, l’angoscia ti serra,
se non confondi l’antico dolore con nuove ferite,
e le recenti piaghe errabondo lenisca d’instabili amori,
o ad altro tu possa rivolgere i moti dell’animo.
Non perde il frutto di Venere chi evita amore,
ne deliba piuttosto le gioie e ne schiva gli affanni.
La volutta’ e’ piu’ limpida ai savi che ai miseri dissennati.
Infatti proprio nel momento del pieno possesso,
fluttua in certi ondeggiamenti l’ardore degli amanti
che non sanno di cosa prima godere con gli occhi e le mani.
Premono stretta la creatura che desiderano , infliggono dolore
al suo corpo e spesso le mordono a sangue le tenere labbra,
la inchiodano con i baci , perche’ il piacere non e’ puro ,
e vi sono oscuri impulsi che spingono a straziare l’oggetto,
qualunque sia , da cui sorgono i germi di quella furia.
Attenua appena il tormento Venere nell’atto dell’amore,
mitiga il morso, cui e’ mista, la gioia dei sensi.
In cio’ e’ la speranza, che dalla forma corporea medesima,
fonte del nostro ardore, possa anche essere estinta la fiamma.
Ma che cio’ avvenga la natura nega recisa;
amore e’ l’unica cosa nella quale piu’ grande è il possesso,
piu’ il cuore arde di un desiderio feroce.
Il cibo e l’acqua sono assorbiti dagli organi,
e poiche’ possono occupare certe sedi nei corpi,
si sazia percio’ facilmente il desiderio di quelli.
Ma dell’umano sembiante, d’un leggiadro incarnato,
nulla penetra in noi da godere, se non diafane immagini ,
misera speranza che spesso e’ rapita dal vento.
Come in un sogno assetato che cerchi di bere,
e bevanda non trovi che estingua nelle sue membra l’arsura,
ma liquidi miraggi insegua in un vano tormento,
o immerso in un rapido fiume ne beva, ma la sete non plachi,
cosi’ in amore Venere con miraggi illude gli amanti
che non sanno appagarsi mirando le svelate forme,
né a una carezza involare qualcosa dalle tenere membra,
irrequieti vagando per l’intera superficie del corpo.
Infine quando il piacere raccolto si effonde dai nervi,
per un po’ si produce una breve pausa dell’ardore,
poi torna la medesima rabbia,di nuovo quella smania li assale,
mentre gli amanti vorrebbero sapere che cosa desiderano,
e non riescono a trovare un rimedio che plachi il tormento:
in tale incertezza si consumano in una piaga segreta.
Aggiungi il travaglio che estingue e disperde le forze,
la vita che fugge in balia di un estraneo volere.
Le ricchezze profuse si mutano in vesti di Babilonia,
i doveri sono trascurati e la stella del tuo nome è in declino.
Unguenti e calzari sicionii splendono al piede,
verdi smeraldi abbagliano racchiusi nell'oro,
negli assidui contatti purpurei drappi sono consunti,
intrisi dal sudore della fatica di Venere.
L'onesto profitto degli avi si muta in mitre e diademi,
e in femminee vesti,e in tessuti preziosi di Alinda e Ceo.
S'apprestano mense imbadite con sfarzo di cibi e costumi,
svaghi,ebrezze,profumi,corone e ghirlande,
ma invano,poichè di mezzo al fonte della gioia
sgorga una vena d'amore che pur nei fiori già duole,
o quando il conscio animo per caso rimorda
per la vita che fugge oziosa e nelle orge sfiorisce,
o perchè l'amata ti lascia nel dubbio di un'avventata parola
che nel trepido cuore confitta vi bruci come fuoco,
o sembra che occhiate dardeggi,un altro rimiri,
e in volto le appaia l'accenno d'un sorriso fugace.

(trad. Luca Canali)